“RE CARLO? UNA TRISTEZZA” - SIMONETTA AGNELLO HORNBY RICORDA L’INCONTRO CON IL NOIOSISSIMO EX EREDE AL TRONO INGLESE: “NON MOSTRAVA NESSUN VERO INTERESSE, COME SE FOSSE UN BAMBINO: CHIEDEVA “DA QUANTI ANNI”, “IN QUANTI PAESI”. ERA TUTTO A NUMERI. QUESTO POVERO DISGRAZIATO PASSA LA VITA AD AVERE RIUNIONI COSÌ. MI FA PENA, ANCHE SE GLI PIACE ESSERE PRIGIONIERO…”
-Luigi Ippolito per www.corriere.it
Una delle scrittrici più amate dal pubblico italiano, la cui narrativa è radicata nella sua Sicilia natìa, è in realtà un’avvocata londinese: «Sono venuta qui a 23 anni, ho visto mezzo secolo di mondo britannico — racconta Simonetta Agnello Hornby nella sua casa arredata di libri e mobili antichi, alle spalle della cattedrale cattolica di Westminster —. Londra è la mia seconda città , dove probabilmente morirò: e mi fa piacere morirci». Alla capitale britannica la Agnello Hornby ha dedicato un libro, «La mia Londra», passeggiate ideali lungo la metropoli sul Tamigi: e ce la si può facilmente immaginare mentre attraversa le strade fra Buckingham Palace e St James Park, con la sua figura minuta, il passo svelto e nervoso.
«La mia Londra è quella dell’arte, la bellezza di Londra per me sono i musei», spiega. Ma è il presente che la rattrista: «Londra ha avuto un momento di grande fulgore quando era nell’Unione europea, si veniva tutti qui, era chic: questo è finito, è una città seccata, una capitale con politici fra i peggiori che ho visto in cinquant’anni. Gli inglesi lo sanno e se ne vergognano, si arrabbiano: non li vedo allegri, nei musei vedo pochi giovani.
Londra è in un momento in cui sta cercando di assorbire il brutto, di digerirlo, dopo di che puoi cominciare ad andare avanti di nuovo: ma come? Da sola non può farlo. La bellezza di quando era nella Ue è che qui arrivava di tutto: gli inglesi accettano, sono generosi, danno possibilità. Arrivavano ragazzi italiani per mettere su un baretto: sarebbe più complicato per un ragazzo inglese mettere su un baretto a Palermo, a cominciare dal pizzo...».
Ma è tutto l’orizzonte futuro che le appare fosco: «Per me la più grande tragedia, che spero non avvenga, è quella della rottura totale del Regno Unito. Non ho mai pensato che fosse possibile, ora penso che è probabile, perché stupidamente gli scozzesi vogliono essere indipendenti: dico stupidamente perché sarebbe la loro morte. La Gran Bretagna si sta restringendo, molto, è diventata una piccola Inghilterra: le gente lo sa, a volte lo nega, a volte ne è addolorata, ma era inaspettato». In questi decenni la scrittrice siciliana è stata testimone di grandi metamorfosi: ma ciò che la colpisce di più è quella dello stile.
«Quando sono arrivata, la gente era vestita “da Londra” — racconta — per cui vestiti scuri, tutto entro i limiti del popolo inglese, che non sapeva mai che tempo faceva e soprattutto con la gente che non doveva dare nell’occhio. La grande rivoluzione è stata Mary Quant, per la minigonna ma anche per i suoi negozi: è una benefattrice degli inglesi, ha dato alle donne la possibilità si sentirsi sexy e attraenti senza spendere tanto, tutto quello che faceva costava poco. Anche se questo non è un popolo elegante: noi siamo molto più attenti, qui c’è il caos. Poi il punk ha aperto questa corsa al cattivo gusto: potrò offenderli da morire, ma gli inglesi non hanno gusto nel vestire, c’è solo un sistema che ti dice cosa metterti».
Da attenta osservatrice dei costumi, la scrittrice sostiene che gli inglesi «sono un popolo di estremi. Me lo diceva sempre mio marito: siamo un popolo rozzo, è venuto Giulio Cesare, ma il lavoro ancora non l’ha fatto. E questo detto da un inglese che parlava il latino». Secondo lei a contraddistinguerli «c’è questo senso del limite o dell’assenza di limite: a Palermo invece nessuno ti dice come ti devi comportare, sai che devi adattarti a quello che c’è, che è totalmente diverso. In più qui hanno il bere, che ti leva tutte le inibizioni e allora fai quello che vuoi».
La Agnello Hornby è anche una esperta di gastronomia, ha dedicato libri alla cucina e condotto programmi televisivi, ma anche su questo piano l’Inghilterra non la impressiona più di tanto: «La cucina inglese era ottima — spiega — all’epoca di Enrico VIII: poi c’è stato un veloce degrado, forse perché non volevano imparare dagli altri. C’è questo senso di inferiorità e allo stesso tempo di superiorità dei britannici, che avranno sempre, perché non solo è un’isola, ma è fatta di gente diversa. Della cucina inglese, a parte il roast beef e i pudding, che sono ottimi, non c’è altro».
Il lavoro di avvocata, impegnata nella difesa delle donne e dei minori, ha portato Simonetta Agnello Hornby a contatto con tutti gli strati della società britannica: famiglia reale inclusa. E fra i suoi incontri in questi anni c’è stato anche il futuro re Carlo: «L’ho conosciuto nella sua residenza, a Clarence House — racconta la scrittrice — durante un ricevimento per un gruppo di persone dei Caraibi, di una società di beneficenza: siccome erano amici miei, mi avevano invitato.
Mi portano in una stanzetta privata dove eravamo otto persone, di cui ero l’unica bianca. Quindi arriva il principe con uno dei suoi ciambellani, che lo presenta: si ferma da me e comincia a farmi domande. Ma capisco che lui crede che io faccia parte del gruppo: allora rispondo e invento. Lui continuava a farmi domande e io inventavo cifre: non ci siamo mai divertiti tanto».
Tuttavia l’impressione che è rimasta nella Agnello Hornby non è delle migliori: «Non mostrava nessun vero interesse, era il suo mestiere, mi sembrò di una tale tristezza, come se fosse un bambino: chiedeva “da quanti anni”, “in quanti Paesi”, non chiedeva cosa avete fatto, cosa organizzerete.... Era tutto a numeri. Mi ha fatto una gran pietà: questo povero disgraziato passa la vita ad avere riunioni così, con organizzazioni di cui sa poco. Mi ha fatto tristezza».
E ora che è re, Carlo le ispira ancora meno simpatia: «Adesso è perfino più costretto nel ruolo, anche se dovrebbe essere nel suo momento di più grande gloria. Ma lo abbiamo visto quando ha firmato, ha avuto uno scatto: è un irritato, un inasprito, un uomo che ha aspettato troppi anni per quello che voleva, per sposare Camilla, per diventare re. A lui è stato negato scegliere quello che poteva fare: mi fa pena, anche se gli piace essere prigioniero. Se avesse avuto senno avrebbe dovuto abdicare a favore del figlio e fare quello che voleva con Camilla. Non è un uomo di grande intelligenza: ma questo non lo si chiede alle famiglie reali, se no abdicherebbero!».