“SE TORNI AL LAVORO TI FAREMO MORIRE” – LA DENUNCIA DI UNA 38ENNE, COSTRETTA A LASCIARE IL LAVORO DOPO AVER PARTORITO IL SECONDO FIGLIO: “MI FACEVANO FARE SOLO LE FOTOCOPIE, SUBIVO MOBBING E ALLA FINE MI SONO ARRESA E MI SONO LICENZIATA. SONO ANDATA IN ALTRE DUE AZIENDE E ANCHE LÌ ALTRE COLLEGHE SUBIVANO LE STESSE PRESSIONI. HO COMINCIATO A PENSARE CHE LE PICCOLE DIMENSIONI AZIENDALI SIANO LA SITUAZIONE PEGGIORE PER QUESTE DINAMICHE..."
-Estratto dell'articolo di Giampiero Rossi per www.corriere.it
«Ho ripreso a vivere la mia vita, personale e lavorativa, ma ogni tanto il pensiero ritorna a quel periodo e a quei fatti e qualche volta sogno di trovarmi ancora in quella situazione e mi sveglio di soprassalto. Ma il vero problema è che quegli episodi si ripetono praticamente in tutti gli ambienti di lavoro».
Sono passati più di quattro anni da quando Chiara (non è il suo vero nome, ma ci sono di mezzo bambini, aziende e quieto vivere di provincia), allora trentottenne, denunciò attraverso il Corriere quanto le stava accadendo nell’azienda dover lavorava da una quindicina d’anni: pressioni sconfinate nel mobbing per indurla a dimettersi («Se torni al lavoro ti faremo morire»), e a rinunciare ai benefici di legge per la sua seconda maternità.
[…]
Chiara, cosa è successo dopo la sua denuncia pubblica dell’ottobre 2019?
«Su consiglio dell’avvocato e considerando i costi che quella vicenda stava imponendo alla mia famiglia, ho deciso di arrendermi. Mi sono dimessa prima del compimento del primo anno della bambina, ma sulla base di un accordo che prevedeva non soltanto una buonuscita ma anche, e soprattutto, il riconoscimento da parte del datore di lavoro di avermi procurato un danno biologico. Ecco, quando ho sentito pronunciare quella frase, lo voglio dire ancora oggi, ho provato l’unica gioia di tutto quel periodo orribile».
Perché dice «mi sono arresa»? Avrebbe voluto resistere in quel clima ostile?
«[...] ho considerato il prezzo che stavo pagando: andavo al lavoro per quattro ore, facendo al massimo fotocopie e con addosso sguardi ostili, non mi fidavo più nemmeno di tenere il cellulare acceso, ero in apnea.
Poi, tornata a casa, non uscivo più, non vedevo nessuno, rispondevo male al mio compagno, a mia mamma, anche il primo figlio cominciava a mostrare di risentire di quelle tensioni. Mi sono chiesta se ne valesse la pena e così ho accettato quella sconfitta mettendo, però, sul piatto della bilancia la qualità della vita di tutta la famiglia».
Però poi ha cercato e trovato un nuovo lavoro. Con quali criteri si è mossa?
«Subito dopo aver chiuso l’accordo mi sono presa una pausa, dovevo recuperare un minimo di serenità, fare pace con me stessa e con il mondo. Ora so che mi sbagliavo, ma prima che accadesse quello che è accaduto io ero convinta che sarei arrivata alla pensione senza mai cambiare azienda.
Poi ho iniziato a cercare, ma avevo obiettivamente paura, e il criterio era quello di capire che ambiente umano avrei trovato, se il fatto di essere madre di due bambini piccoli sarebbe stato visto come un problema. E infatti a convincermi a scegliere la nuova azienda, sono stati il fatto che sarei subentrata per una sostituzione-maternità e anche il colloquio con il titolare, che mi ha confidato di essere papà di tre bimbi. Ho pensato che in quell’azienda avere figli non fosse considerata una colpa».
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Cosa è successo?
«Una collega con quattro figli era scivolata in una crisi depressiva a causa di una serie di tensioni familiari. Stava vivendo una situazione pesante ma il capo ha letteralmente cambiato faccia, ho visto le stesse dinamiche che avevo subito io, l’ha fatta chiamare per rimproverarle una cosa persino mentre si trovava in degenza. Volevano indurla ad andarsene. Allora anch’io ho cominciato ad agitarmi, non volevo più assistere a cose simili, sono diventata totalmente intollerante, non voglio più vedere nessuno vivere ciò che ho vissuto io».
E lei come ha reagito?
«Non ho avuto la forza di oppormi, ho pensato che a uno che si comporta in quel modo non lo fai ragionare con le parole, così ho scelto di andarmene, immediatamente, senza spiegazioni. Ho cominciato a pensare che forse le piccole dimensioni aziendali, dove ci sarebbero le basi per rapporti quasi familiari, siano in realtà la situazione peggiore per queste dinamiche. […]».
Quindi ora si trova in una terza azienda. Come vanno le cose?
«È un posto più vicino a casa e quando ho descritto le mie esigenze familiari mi hanno mostrato comprensione e sembravano persino contenti di avermi con loro. Mi sono detta “ma allora esistono posti così”. Poi, però, ho saputo che in passato una collega rimasta incinta è passata per le stesse pressioni che ho subito io. Non se ne esce».
Cosa potrebbe aiutare le donne che lavorano?
«Visto che ci chiedono di fare figli, dovrebbero offrire condizioni favorevoli. Io con due nonne di supporto ce la faccio soltanto perché ho scelto il part time. Ma c’è gente che lavora praticamente soltanto per pagare la baby-sitter. È evidente che qualcosa non funziona come dovrebbe. E poi, magari, sul lavoro ci si ritrova in situazioni come la mia».