MENO COVID, PIU’ VINCOLI – IL GIUSLAVORISTA SPIEGA I DUBBI INTERPRETATIVI SULLE NUOVE NORME SUI RAPPORTI SUBORDINATI – POLEMICHE SUL DECRETO AGOSTO CHE HA PROROGATO IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI PER GIUSTIFICATO MOTIVO E DEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI: LA NORMA CHE PREVEDE L’ESTENSIONE DEL DIVIETO È COSTRUITA SECONDO UN COMPLESSO MECCANISMO CHE, OLTRE A SUSCITARE DUBBI E INCERTEZZE (DESTABILIZZANDO GLI IMPRENDITORI), RISCHIA DI VINCOLARE MAGGIORMENTE QUELLE IMPRESE CHE HANNO FATTO UN USO LIMITATO (O ADDIRITTURA NULLO) DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI DURANTE LA PANDEMIA…
-Ranieri Romani per la Verità
Il tanto atteso D.L. 104/2020 (ribattezzato decreto Agosto) è già fonte di polemiche a poche ore dalla sua pubblicazione, non tanto (e non solo) perché – nonostante i vari appelli di economisti, giuslavoristi e associazioni imprenditoriali – ha prorogato il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi, quanto perché la norma che prevede l’estensione del divieto (art. 14) è costruita secondo un complesso meccanismo che sta suscitando dubbi e incertezze, destabilizzando gli imprenditori.
Diversamente dai precedenti provvedimenti, il decreto Agosto prevede una durata mobile del divieto, in quanto connessa (rectius! condizionata) all’integrale fruizione da parte delle aziende:
dell’ulteriore periodo di cassa Covid (18 settimane da utilizzarsi sino al 31 dicembre e decorrenti dal 13 luglio), ovvero
dell’esonero contributivo il quale, ai sensi del medesimo provvedimento, è riconosciuto ai datori di lavoro che non chiedano ulteriore cassa Covid ma che ne abbiano fruito nei mesi di maggio e giugno (nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale fruite in tale periodo e, comunque, per un massimo di 4 mesi).
Lasciando da parte ogni commento sul complesso (ma, comunque, in qualche modo comprensibile) meccanismo elaborato dal Governo per determinare la durata del divieto di licenziamento, ciò che sta suscitando i principali dubbi è se le aziende che non hanno usufruito della cassa Covid a maggio e giugno (o addirittura non ne hanno mai usufruito dall’inizio della pandemia) e non intendano chiederla nei prossimi mesi, debbano necessariamente attendere il 31 dicembre (termine ultimo per l’utilizzo della cassa) per poter procedere con i licenziamenti.
In attesa di auspicabili chiarimenti ministeriali, il tenore letterale della norma (che, come detto, richiede l’integrale fruizione delle 18 settimane di cassa ovvero dell’esonero contributivo prima di procedere con i licenziamenti) sembra andare proprio in questa direzione.
E ciò – se confermato - avrebbe dell’assurdo, poiché andrebbe a danneggiare sia le imprese che avrebbero necessità di riorganizzarsi a prescindere dal Covid, sia (e soprattutto) quelle che hanno fatto un uso limitato (o addirittura nullo) degli ammortizzatori sociali durante la pandemia, con la conseguenza che le stesse, al solo fine di anticipare il termine finale del divieto di licenziamento, saranno a questo punto “costrette” a utilizzare (a spese dei contribuenti) le 18 settimane di cassa (per poi inevitabilmente recedere dai rapporti di lavoro).
Da ciò derivando, peraltro, l’ulteriore incongruenza del decreto, il quale prevede, da un lato, che l’utilizzo delle 18 settimane di cassa sia una mera facoltà per le imprese e, dall’altro, richiede che queste abbiano “integralmente fruito” del periodo di cassa per poter licenziare (trasformando di fatto una facoltà in un obbligo per chi vuole riorganizzarsi e, quindi, licenziare).
Senza contare, peraltro, i dubbi di legittimità costituzionale di un provvedimento che limita la libertà di impresa per un ulteriore periodo, il quale termina persino dopo l’attuale scadenza dello stato di emergenza epidemiologica (fissata al 15 ottobre 2020).
Il Governo ha, però, almeno precisato che il divieto di licenziare non opera se i recessi:
sono motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività (nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri, però, la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'art. 2112 c.c.);
sono irrogati in caso di fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione (nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso).
Tali deroghe al divieto sono un importante passo avanti rispetto ai precedenti decreti (Cura Italia e Rilancio) i quali non prevedevano esclusioni, a tal punto che molte aziende – nonostante la cessazione definitiva della propria attività - si erano trovate nella paradossale situazione di non poter mettere in liquidazione la società stante il divieto di licenziamento.
Infine, il divieto non si applica nemmeno nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (non, quindi, le RSA/RSU), di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono a tale accordo. Questa, tra le ipotesi di esclusione, sembra essere la più interessante (seppur di non facile attuazione), consentendo alle imprese di attuare processi di riorganizzazione su base volontaria e, come espressamente precisato, con mantenimento del diritto alla Naspi in favore dei dipendenti.