A OSTRUIRE LA VERITA’ SU GIULIO REGENI CI SI METTONO PURE I CONFLITTI NEL TRIBUNALE DI ROMA: ORA IL PROCESSO RISCHIA DI RESTARE BLOCCATO - UN GIUDICE HA RITENUTO CHE IL PROCESSO PER IL SEQUESTRO E L'OMICIDIO DEL RICERCATORE SI POTESSE FARE ANCHE IN ASSENZA DEGLI IMPUTATI E ALTRE TOGHE HANNO DETTO NO, IL DIBATTIMENTO NON PUÒ COMINCIARE PERCHÉ MANCA LA PROVA CHE QUEGLI STESSI IMPUTATI SIANO STAI INFORMATI DEL GIUDIZIO A LORO CARICO - E COSI’ C’E’ STATO UN RINVIO A GIUDIZIO POI ANNULLATO PER 4 MILITARI EGIZIANI - I DEPISTAGGI, LE RETICENZE, I PUNTI DEBOLI STORIA DELL'INCHIESTA... 

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CLAUDIO PAOLA E IRENE REGENI

1 - REGENI, SCONTRO DENTRO IL TRIBUNALE DI ROMA

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”

 

C'è un problema di diversa interpretazione delle norme tra magistrati. Di più: un conflitto all'interno del tribunale di Roma, dove un giudice ha ritenuto che il processo per il sequestro e l'omicidio di Giulio Regeni si potesse fare anche in assenza degli imputati e altri hanno replicato che no, il dibattimento non può cominciare perché manca la prova che quegli stessi imputati siano stai informati del giudizio a loro carico.

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Di fronte agli stessi commi e alle stesse carte bollate c'è un contrasto di vedute che ha portato a due verdetti opposti: decreto di rinvio a giudizio e successivo annullamento di quel provvedimento. Questo è lo scoglio su cui s' è arenato, per adesso, il processo contro i quattro militari della National security egiziani accusati del rapimento e (uno di loro, l'ultimo) delle torture e dell'uccisione di Giulio: il generale Tarek Ali Saber, i colonnelli Aser Kamal Mohamed Ibrahim, e Hosam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif.

 

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Finora c'era una Procura che era riuscita nel mezzo miracolo di portare alla sbarra quattro cittadini stranieri per un reato commesso nel loro Paese ai danni di un cittadino italiano, nonostante gli ostacoli frapposti dall'Egitto che da quattro anni (quando l'indagine ha imboccato la strada che portava a quei quattro nomi) ha interrotto ogni collaborazione. Anzi, a gennaio scorso ha sferrato un duro attacco alla Procura di Roma, accusandola di «conclusioni illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici penali internazionali». Adesso lo scenario è cambiato e l'ostacolo è stato sollevato dalla III corte d'assise che non se l'è sentita di aprire il processo in assenza degli imputati.

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Pur riconoscendo che questa situazione di improcedibilità deriva dalla «acclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte alle richieste del ministero della Giustizia italiano, seguite da reiterati solleciti per via giudiziaria e diplomatica, nonché da appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano».

 

Ma di fronte a tanta ostinata sordità non si può andare avanti sulla «presunzione» (trasformata dal giudice dell'udienza preliminare Pierluigi Balestrieri in «assoluta certezza») che gli imputati sappiano e si vogliano sottrarre al dibattimento in corso. Ci vuole la «prova certa», da valutare con «particolare rigore», ha scritto la giudice Antonella Capri nell'ordinanza della corte da lei presieduta. Che succederà ora?

 

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Nel giro di qualche settimana gli atti del procedimento torneranno allo stesso gup il quale - presumibilmente entro gennaio - fisserà una nuova udienza preliminare dove il pubblico ministero, la parte civile e i difensori torneranno a discutere il tema della reperibilità degli imputati e delle notifiche. È verosimile che il giudice avvierà una nuova rogatoria per chiedere all'Egitto l'elezione di domicilio dei quattro militari, ma è altrettanto verosimile che l'Egitto risponderà con il silenzio fatto scendere dal dicembre 2017 in avanti. A quel punto il processo piomberà in una sorta di limbo, sospeso sine die , in attesa che l'Egitto decida diversamente di fronte alle nuove richieste da reiterare ogni anno. Naturalmente il governo italiano può cercare altre strade per ottenere risposte diverse dal Cairo.

 

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Ma la decisione di palazzo Chigi di costituirsi parte civile contro i quattro imputati, al fianco dell'accusa e della famiglia Regeni, non è stata gradita in Egitto; così come l'inserimento nella lista dei testimoni da convocare (su richiesta dei genitori e della sorella di Giulio) del presidente Al Sisi e altri esponenti del governo. Tuttavia, secondo il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Erasmo Palazzotto, la costituzione di parte civile «pone in capo al governo italiano ancora maggiori responsabilità nel dovere esercitare, con ogni strumento a sua disposizione, una pressione diplomatica e politica affinché l'Egitto collabori con la giustizia italiana». Ma non sarà facile.

 

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2 - I DEPISTAGGI, LE RETICENZE, I PUNTI DEBOLI STORIA DI UN'INCHIESTA SENZA SPERANZA

Francesca Paci per “la Stampa”

 

C'è un non detto che pesa come un macigno sul processo Regeni, perché in realtà, come sanno bene tutti i protagonisti di questa storia, la collaborazione tra le procure di Roma e del Cairo non è mai esistita se non nelle migliori intenzioni degli italiani. Mai, neppure nel ferragosto della speranza di quattro anni fa, quando l'allora ministro degli esteri italiano Angelino Alfano inviava in Egitto l'ambasciatore Giampaolo Cantini per colmare il vuoto di sedici mesi seguito al richiamo del predecessore, Maurizio Massari, quello che aveva riconosciuto all'obitorio il corpo di Giulio Regeni e dopo aver bussato come un pazzo invano alle porte dei principali ministeri egiziani aveva appeso una gigantografia del ragazzo all'ingresso del nostro ufficio consolare, accanto al Presidente della Repubblica, un impegno e un monito.

 

REGENI E SINDACALISTA EGIZIANO

L'inchiesta della Procura di Roma aveva diversi punti deboli e non certo sul fronte delle responsabilità dell'omicidio: anche questo era chiaro. Ma l'Italia doveva cercare la verità giudiziaria perché quella politica era troppo gravosa. Troppo ingombrante l'Egitto, riaffermatosi nel frattempo nella regione come un partner indispensabile per la crisi libica, per la partita energetica, per la gestione dei flussi migratori.

REGENI

 

Troppo difficile puntare l'indice contro un regime che, come tre giorni fa a Budapest, non perde occasione per ribadire la propria indisponibilità a prendere lezioni di diritto da quell'occidente sempre più sostituibile dalla Russia, dalla Cina e all'occorrenza perfino dalla un tempo nemica Turchia.

 

Gli inquirenti hanno caricato a testa bassa per mesi, per anni, smontando i depistaggi degli egiziani, sfidandone la reticenza, incrociando testimonianze e chiedendo decine di volte gli indirizzi dei quattro ufficiali della National Security indagati, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, nomi ormai stranoti agli uomini del presidente Abdel Fattah al Sisi.

 

REGENI

Che la magistratura da sola potesse sfondare il muro di gomma era ed è wishful thinking. E' mancata la politica, un premier dopo l'altro, è mancata l'Europa, è mancata la forza di cercare un fronte comune per negoziare un cambio di passo con un paese per niente intimidito dal j' accuse dei giuristi internazionali che ha riservato a Regeni il trattamento riservato ai propri figli e, a priori, riservabile ad altri. Sono passati così quasi sei anni dalla notte in cui scoprimmo con sgomento che un ricercatore italiano poteva essere massacrato al Cairo con noncuranza, quasi.

 

PASSAPORTO DI GIULIO REGENI

Chi era lì in quei giorni può confermare lo stupore e il fastidio del governo egiziano per la "insistenza" (dicevano proprio così i media ufficiali) con cui, capitanati dall'ambasciatore Massari, chiedevamo di sapere. Ci furono giorni in cui, per minimizzare l'abisso Regeni, la propaganda prese a citare in tv i tanti egiziani morti in Italia in situazioni poco chiare, tipo un pover' uomo finito sotto il treno. Quello egiziano è un popolo mite, caldo, leggero sebbene gravato dal peso di una storia che insegue ancora la catarsi.

 

REGENI

A partire dal 2013, ma forse anche da prima, il regime, a testa bassa per recuperare terreno agli audaci quanto impreparati ragazzi di Tahrir, ha cominciato a diffondere la storia della cospirazione occidentale, il complotto per screditare gli eredi dei Faraoni, le spie travestite da giornalisti per avvelenare la coesione nazionale. L'ha raccontata per spiegare la sorte della meglio gioventù in cella senza prove come l'attivista Alaa Abd-el Fattah, la cui infinita detenzione è tutta nel coraggioso libro curato da Paola Caridi, "Non siete stati ancora sconfitti" (hopefulmonster editore).

 

giulio regeni

L'ha raccontata per gettare ombre su Giulio Regeni, lo straniero. La racconta in questi mesi per screditare Patrick George Zaki, lo studente dell'università di Bologna accusato di pseudo-terrorismo che i giudici rinviano sine die. Ad eccezione dell'indomito sito Mada Masr non ci sono più media indipendenti in Egitto. Mentre il complottismo si è radicato nel paese legandosi alla fame, all'incertezza, alla paura.

 

FUNERALE REGENI

Non c'è traccia del processo Regeni nei giornali egiziani, sulle tv, non se ne parla nei caffè. E' impossibile che la Procura del Cairo non abbia ricevuto le carte dei colleghi di Roma, la notifica del processo, i nomi degli imputati. La magistratura italiana è arrivata con tenacia fin dove poteva arrivare da sola. Perché, checché ci dicessimo, l'Egitto non ha collaborato mai. E siamo all'anno zero.