IL PEGGIOR NEMICO DI PUTIN È PUTIN STESSO – LO ZAR È TALMENTE SCOLLEGATO DALLA REALTÀ CHE STA PERDENDO I FEDELISSIMI. IL PATTO DEL CONSENSO SI È ROTTO DUE VOLTE: QUELLO DEI MILITARISTI IMPERIALISTI È STATO PERSO NELLA FUGA PRECIPITOSA DELL'ESERCITO DA KHARKIV. QUELLO DEI RUSSI NELLA MOBILITAZIONE “PARZIALE” SOLTANTO NELLE PROMESSE DEL GOVERNO - ORA, IL LEVADA ZENTR RILEVA CHE IL NUMERO DEI SOSTENITORI DELLA PACE HA SUPERATO QUELLO DEI FAN DELLA GUERRA E… - VIDEO

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Anna Zafesova per "La Stampa"

 

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«Siamo pronti al dialogo con la Russia, ma soltanto con il suo prossimo presidente»: mentre firma la richiesta di adesione accelerata alla Nato, Volodymyr Zelensky lancia un messaggio a chi ha appena finito di ascoltare il lungo e confuso discorso di Vladimir Putin dedicato alla annessione dei territori occupati dell'Ucraina. Nel giorno in cui a Kiev come a Mosca molti si aspettavano l'inizio della escalation nucleare il leader russo ha presentato quella che ritiene essere una proposta di negoziato: la Russia si tiene quello che ha conquistato in sette mesi, e si dichiara disposta a trattare sul resto, come il Cremlino ribadisce in un ulteriore comunicato la sera.

 

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«Un segno di debolezza e non di forza», commenta il segretario generale dell'Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg, e la situazione al fronte gli dà ragione: dopo l'annessione - più sulla carta che sul terreno - l'esercito di Mosca viene battuto in quello che considera il proprio territorio. Putin, sfoggiando il suo piumino Brioni da dieci mila euro, ha cercato di strappare un triplo «hurrà» a studenti e dipendenti pubblici convocati al concerto al Cremlino, proprio mentre 5 mila truppe russe venivano accerchiate a Liman. Nulla da festeggiare, nulla da mettere sul tavolo delle trattative, e Zelensky risponde chiudendo la porta in faccia e non menzionando nemmeno l'annessione di Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Luhansk nel suo videomessaggio serale.

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La consacrazione da grande leader che doveva risollevare la popolarità di Putin, come era successo dopo l'annessione della Crimea nel 2014, non è avvenuta, e non soltanto perché Mosca dichiara suoi territori che non controlla, con la linea del fronte che continua a cambiare, prevalentemente non a favore dei russi. Perfino secondo i sondaggisti governativi, il livello di angoscia dei cittadini è raddoppiato in una settimana, dal 35 al 69%, e le rilevazioni demoscopiche dell'indipendente Levada Zentr danno numeri ancora più elevati.

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Metà della Russia è in fuga dalle lettere di arruolamento, in coda al valico di frontiera più vicino, oppure in viaggio verso le trincee del Donbass, senza addestramento, e spesso senza armi, uniformi e medicinali. Ma Putin non menziona nemmeno la mobilitazione, preferendo dilungarsi in invettive contro l'Occidente come «nemico storico» della Russia. Un testo pieno di cliché ideologici, alcuni dei quali rispolverati dall'armamentario della propaganda sovietica e altri più vicini alle teorie cospirazioniste dei sovranisti: gli occidentali vengono incriminati di «colonialismo», «apartheid», «avidità» e «sfruttamento», di aver «spinto alla droga interi popoli», «depredato le ricchezze naturali» e «sradicato valori tradizionali» grazie al «dominio del dollaro e delle tecnologie».

 

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Un'accusa curiosa di fronte a una platea arricchita grazie alla vendita di petrolio e gas in Europa. Ma Putin non sembra rendersi conto delle contraddizioni, anche quando accusa dei non meglio precisati «anglosassoni» di aver sabotato i gasdotti North Stream, rivelazione smentita clamorosamente poche ore dopo da Nikolay Patrushev, il potente segretario del Consiglio di sicurezza.

 

Un altro di tanti piccoli segnali di disagio del regime. Il patto del consenso putiniano si è rotto due volte: quello dei militaristi imperialisti è stato perso nella fuga precipitosa dell'esercito da Kharkiv, quello dei russi comuni della maggioranza silenziosa nella mobilitazione, «parziale» soltanto nelle promesse del governo. Ora, il Levada Zentr rileva che il numero dei sostenitori della pace ha superato quello dei fan della guerra, e un presidente che promette una vittoria mentre sta perdendo delude i primi come i secondi. Il ricorso alla minaccia nucleare - «non è un bluff», aveva giurato Putin nel suo discorso in tv la settimana scorsa - sembra aver terrorizzato più i russi che gli ucraini, e il giornale di opposizione Meduza cita alti funzionari del Cremlino che parlano della prospettiva di una apocalisse nucleare come di qualcosa di inesorabile.

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Che Putin non sa usare il freno è noto, e la sua propagandista Margarita Simonyan spiegava che «se non mettiamo la retromarcia resta la speranza che la mettano i nostri avversari». L'ex presidente Dmitry Medvedev invece aveva esposto la teoria strategica: l'Occidente vile e avido non si sarebbe schierato a difesa dell'Ucraina, «lasciandoci usare qualunque arma». È il «chicken game», il gioco a chi si spaventa per primo, e Kiev insieme alle capitali occidentali ha deciso saggiamente di non scommettere sul bluff, per togliere a Putin la tentazione di dimostrare che non stava scherzando.

 

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Invece, Zelensky ha mostrato di prendere la minaccia nucleare molto sul serio, bussando alla porta della Nato e revocando la sua proposta di un negoziato sulla sicurezza di un'Ucraina neutrale. E soprattutto, lanciando un segnale a una classe dirigente russa già profondamente turbata dal disastro militare ed economico prodotto da un presidente che cita Goebbels e rimprovera gli Usa di aver bombardato Dresda e occupato la Germania, mentre 5 mila suoi soldati vengono accerchiati a Liman. È evidente che i vip invitati al Cremlino ieri stanno pensando a come sopravvivere a Putin, e l'articolo uscito ieri sul Washington Post a firma di Alexey Navalny - che dalla sua prigione propone la fondazione di una repubblica parlamentare, per distruggere l'«autotoritarismo imperale aggressivo che continua a riprodursi» in Russia - ne è un ulteriore segnale.

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