QUANTO DOBBIAMO ASPETTARE ANCORA PER IL MUSEO COI TESORI DEI PRINCIPI TORLONIA? LITI TRA GLI EREDI, ACCUSE SULLA SPARIZIONE DI “MOLTE OPERE”, DENUNCE DI OSCURE TRATTATIVE PER PORTARE INTERE COLLEZIONI ALL'ESTERO E IL GIALLO CON IL GETTY MUSEUM. L’ATTESA DURA DA 70 ANNI – C’È CHI PUNTA TUTTO SULLA SEDE PERMANENTE E CHI TEME UNA… - LA MOSTRA AI MUSEI CAPITOLINI CON OLTRE 90 CAPOLAVORI DEI 620 DELLA COLLEZIONE
-Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
Quanto dobbiamo aspettare ancora per l'agognato museo coi tesori dei principi egoisti? Questo vorrebbero sapere i cittadini italiani, dopo oltre settant' anni d'attesa, mettendo a confronto i pezzi restaurati e stupendi della mostra (provvisoria) «I Marmi Torlonia» e l'«ammasso di detriti» - copyright di Antonio Cederna, 1979 - di immenso valore ammucchiati nel caos impolverato di tre magazzini nel centro di Roma.
Perché sì, sarà pure vero che i tempi delle burocrazie sono biblici, ma proprio la lucente esposizione ai musei capitolini (in scadenza fra otto settimane) rende più insopportabili le immagini, troppo a lungo blindate, di quei depositi fotografati in un'ispezione imposta nel 2015 dalla Direzione generale Archeologia, poi accorpata e soppressa. E tra i dubbi riemerge di tutto. Liti tra gli eredi, accuse sulla sparizione di «molte opere», testimonianze di ex maggiordomi, denunce di oscure trattative per portare intere collezioni all'estero, polemiche roventi nate dall'ambiguità di frasi sull'uso delle sculture restaurate e «destinate al tour mondiale...».
Con il rischio che alla fine, nel caos delle accuse e controaccuse, finisca per aggrovigliarsi ancora di più il percorso verso l'obiettivo finale dichiarato: il museo. Ma partiamo dall'inizio. E dalla scelta dei Torlonia, una famiglia di modeste origini francesi arrivata a Roma a metà del Settecento e diventata spropositatamente ricca partendo dal commercio delle sete per arrivare alla proprietà di banche e tenute, di mettere insieme una collezione di statue romane (anzi, più collezioni) che dovevano dar lustro alla casata fino alla conquista del titolo principesco.
Finché Alessandro Torlonia il vecchio prese in affitto a metà dell'800 un enorme granaio e opificio a Trastevere, poi comprato, per sistemarci 517 statue, bassorilievi, busti, colonne e opere varie e dare vita nel 1875 a un grande museo che accumulando in seguito un altro centinaio di pezzi sarebbe diventato la più grande collezione privata mondiale di antichi marmi. E «privata», per lui e per i suoi successori, voleva dire davvero privata. Al punto che il museo, come il giardino del Gigante egoista di Oscar Wilde, era tutto «suo».
E aperto soltanto a pochi eletti o comunque persone invitate dal Principe. E tale sarebbe rimasto con gli eredi successivi, peraltro ancor più restii a mettere quel loro ben di Dio a disposizione di tutti. Al punto che Ranuccio Bianchi Bandinelli, quando già era ai vertici della Direzione Antichità e Belle Arti, nel 1947, sarebbe riuscito a vedere la fenomenale raccolta solo travestendosi da spazzino. Vero? Falso? Mah... Certo è che nonostante quei marmi fossero considerati dallo Stato come patrimonio italiano e protetti nel 1910 da un vincolo ribadito nel 1948, l'accesso ai visitatori restò di fatto riservato al capriccio dei principi.
Che tanto si sentivano padroni assoluti della loro «roba» che a un certo punto Alessandro Torlonia il giovane, infischiandosene degli altrui giudizi, si procurò un'autorizzazione a rifare il tetto, sgomberò le 77 sale che ospitavano le collezioni, fece accatastare i marmi in tre stanzoni a piano terra coi gomiti degli atleti cacciati tra le scapole dei filosofi e i seni delle matrone, per fare delle vecchie gallerie 93 monolocali di lusso. La legge? Che gli importava? Condannato fino in Cassazione e demolito dalla sentenza che descriveva già allora i «locali angusti, insufficienti, pericolosi» dove le statue erano «stipate in maniera incredibile», se la cavò grazie a un'amnistia. Peggio: la legge, come scriverà sul Corriere Cederna, passò «la spugna sui reati contro i beni culturali» e dissequestrò i marmi e pure i monolocali «senza abitabilità»...
Fatto sta che, dopo anni e anni di appelli, promesse e proposte di legge per requisire infine quel patrimonio, a vuoto come i tentativi di acquisto da parte dello Stato, nel maggio 2015 l'allora direttore generale per l'Archeologia Gino Famiglietti arrivò a denunciare a Dario Franceschini, già ministro dei Beni Culturali, l'arrivo al ministero di due misteriosi figuri, Lee H. Miller e Hicham Aboutaam: «Nel corso dell'incontro, tenutosi presso gli uffici di questa Direzione Generale, i due uomini di affari hanno fatto riferimento ai contatti in essere con la famiglia Torlonia per l'acquisto della Collezione di statue e marmi». Parevano anzi «molto sicuri dell'esistenza di un loro diritto all'esportazione, ancorché temporanea, della collezione o comunque di suoi nuclei».
Dissero «che agivano su mandato del J. Paul Getty Museum» e, a dispetto delle parole del dirigente pubblico sull'assurdità delle pretese, fecero «riferimento a un importo oscillante fra i 600 e i 900 milioni di dollari». Una boutade ? Possibile. Ma con lo strascico di un processo (ancora a vuoto) a New York. Certo è che quando lo stesso dirigente, deciso a strappare un accordo coi Torlonia per la nascita d'un museo, riuscì nel 2016 a mettere tutti intorno a un tavolo, fu costretto a ingoiare un rospo.
E cioè la tesi che i locali del vecchio museo erano stati sgomberati non per farci 93 monolocali ma «per esigenze connesse alla sicurezza della Collezione, su iniziativa della Famiglia Torlonia, a seguito di segnalazioni della Soprintendenza in merito a criticità riscontrate nelle condizioni di custodia e protezione». Un prezzo altissimo, per i Beni Culturali. Pagato in nome di un accordo su una prima grande mostra insieme, pubblica e privata, diretta per scelta delle due parti da Salvatore Settis (e dall'archeologo Carlo Gasparri) con 92 statue restaurate grazie alla sponsorizzazione di Bulgari, seguita dal trasferimento dell'esposizione in due sedi estere di grande prestigio. Il tutto come avvio del progetto che più contava per il ministero: l'apertura tanto attesa del museo.
Un compromesso decente nel nome del diritto dei cittadini a visitare finalmente quelle statue «private» patrimonio della storia italiana? Una resa alle storiche arroganze dei Torlonia, neppure citate nel catalogo Electa? Una rinuncia a rivendicare l'esproprio di quel tesoro di 620 pezzi che ancora resta in larghissima parte negli scantinati? Lo scontro tra le diverse anime di chi rivendica l'articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») si è fatto via via più aspro. Di qua i più inflessibili come l'archeologa Margherita Corrado che denuncia il rischio di una girandola planetaria di mostre (saltate, per ora, sia a Los Angeles sia a Parigi), di là i più pragmatici come Settis o Franceschini che puntano al bersaglio grosso: il museo aperto a tutti. Un obiettivo sensato. Purché, dopo tutti questi decenni ci siano certezze: una sede, una data, uno scadenzario dei tempi, una saldatura dichiarata e netta con il grande progetto di rilancio del Paese stremato dal Covid. Sono già passati cinque anni da quell'accordo sul museo. E coi tempi all'italiana...