QUI VIENE GIU’ TUTTO – IN ITALIA L’80% DI TUTTE LE FRANE IN EUROPA: MANCA LA PREVENZIONE – SONO I 7.275 I COMUNI A RISCHIO – J’ACCUSE DI GIAN ANTONIO STELLA: "LA NUOVA BATOSTA CONFERMA LA NECESSITÀ DI UN MONITORAGGIO CAPILLARE DELLO STATO DI SICUREZZA DELLA NOSTRA RETE VIARIA. NON NE POSSIAMO PIU’ DI INTERVENIRE SOLO DOPO. COSTANO IN MEDIA DUE MILIARDI L'ANNO, GLI INTERVENTI DI EMERGENZA IN SEGUITO A OGNI CALAMITÀ PIÙ O MENO NATURALE"
-M. Ev. per “il Messaggero”
Dissesto idrogeologico e prevenzione: un tema che ritorna ciclicamente. Parole, analisi e annunci superano di gran lunga le azioni che si riescono a mettere in campo. Non è un problema di risorse, ma di incapacità di spenderle, in modo rapido ed efficace. Eppure, c'è un dato che ben descrive le criticità del nostro Paese, l'incidenza delle debolezze dal punto di vista quantitativo e del livello di gravità. L'80 per cento di tutte le frane del continente europeo sono in Italia.
«In altri termini - spiega il presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi, Francesco Peduto - su 800mila frane in Europa, 630mila sono avvenute nel nostro Paese. Sono dati dell'Ispra, questo evidenzia quanto sia necessaria la prevenzione in un territorio come il nostro. È inimmaginabile pensare di risolvere tutto solo con opere strutturali, tenendo conto di un numero così elevato di problemi. Servono anche monitoraggio e sorveglianza preventiva».
Coldiretti ha spiegato che 7 milioni di italiani vivono in aree a rischio: «Le precipitazioni sempre più intense e frequenti si abbattono su un territorio reso fragile dal dissesto idrogeologico con 7.275 comuni complessivamente a rischio per frane o alluvioni (il 91,3% del totale)». Il piano Proteggi Italia, partito a febbraio e illustrato dal Governo nel Documento programmatico inviato a Bruxelles, ha attivato seimila interventi di messa in sicurezza del territorio per 1 miliardo di euro, lo 0,06 per cento del Pil. Per il 2020 l'Italia ha ribadito la richiesta di flessibilità per 3,6 miliardi, sempre per interventi che contrastino il dissesto idrogeologico.
NODI
In realtà non è sufficiente. Anche gli eventi di questi giorni, il ripetersi di alluvioni e frane, mostran le difficoltà di un Paese che paga due tipi di conti sul fronte delle infrastrutture pubbliche come ponti e viadotti. Il primo è quello legato agli effetti del tempo che passa: le opere pubbliche sono state realizzate soprattutto nel dopo guerra, dopo 50-60 anni ora sentono il peso degli anni. Il secondo: un tempo c'era minore attenzione nel rispettare le distanze dalle aree a rischio di frane e alluvioni.
«Vale per le infrastrutture pubbliche, vale purtroppo anche per zone residenziali - ricorda Peduto - in passato si è costruito in maniera impropria, sono state occupate le aree golenali che erano le casse di naturali di espansione dei fiumi; oppure su versanti instabili. Quando c'è stato il dramma del Ponte Morandi, noi ricordammo che il problema maggiore delle infrastrutture non è solo il fatto che sono vetuste, ma che gravitano su zone a rischio. Ricordiamoci del ponte travolto da una piena di un fiume a Cagliari un anno e mezzo fa, e poi altri casi in Sicilia, in Calabria, ora a Savona».
Non possiamo spostare ponti e viadotti, ma prevenzione significa anche fare manutenzione, sorveglianza e monitoraggio delle zone critiche, per capire se ci sono situazioni di dissesto imminente. Secondo gli esperti serve un presidio territoriale, monitoraggi continui: strumentali, satellitari e tecnico-specialistici. «Prevenire costa dieci volte di meno rispetto all'agire dopo un disastro». Secondo Peduto è stato un errore azzerare l'iniziativa del governo Renzi, proseguita da Gentiloni: la struttura di Italia Sicura che prevedeva una serie di interventi nell'arco di qualche decennio. E su questo ieri, su Twitter, è intervenuto proprio Matteo Renzi: «Il Governo deve ripristinare subito l'Unita di missione sul dissesto. E per sbloccare i cantieri servono i commissari, non le chiacchiere».
2 - LA PIAGA DELL'INCURIA
Gian Antonio Stella per il “Corriere della sera”
Possiamo continuare ad affidare il nostro destino a Giovanni Nepomuceno martire, il Santo protettore dalle frane e dalle alluvioni? Quel vuoto spettrale tra i due monconi mozzati e rimasti in piedi del viadotto dell' Autostrada A6 Torino-Savona, travolto da una frana, ci riporta di colpo indietro di quindici mesi. A quel Ferragosto 2018 in cui sotto la pioggia battente si schiantò al suolo a Genova, una cinquantina di chilometri più in là, il ponte Morandi. Certo, stavolta il bilancio non è apocalittico come allora. Ma quanto ha pesato la buona sorte, assai poco coadiuvata, storicamente, dalla manutenzione quotidiana delle nostre infrastrutture?
I rilievi dei vigili del fuoco, le analisi degli scienziati, le indagini della magistratura diranno se e in quale misura c' entrino anche stavolta l' incuria e la sciatteria, piaghe che negli anni sono diventate un incubo. Certo è che la nuova batosta conferma, più ancora delle immagini di tanti altri viadotti vetusti e vistosamente aggrediti dal tempo, dal salso o dalla ruggine, la necessità assoluta di un monitoraggio capillare dello stato di sicurezza della nostra rete viaria. Tanto più dopo la rivelazione di qualche giorno fa: un report del 2014 parlava già per il ponte di Genova di un «rischio di perdita di staticità».
Un penoso giro di parole, a quanto pare, per non evocare direttamente il pericolo di un crollo. Monitoraggio ancor più necessario in una regione come la Liguria esposta più di altre al rischio idrogeologico.
Dice un rapporto dell' Agenzia per la protezione dell' ambiente e per i servizi tecnici, rapporto del 2007 ma ancora valido, che «la superficie territoriale regionale è rappresentata per il 97,58% (pari a 5.276,65 chilometri quadrati) da aree montano- collinari e per il 2,42% ( 13,05 chilometri quadrati), da aree di pianura» e che tra quei bellissimi e tormentati spazi «sono state censite complessivamente 7.513 frane» per la stragrande maggioranza sul versante tirrenico.
Un problema serissimo.
Aggravato via via nei secoli, ma con una spericolata accelerazione negli ultimi decenni, dalle scelte compiute dagli uomini. Capaci di occupare ogni metro quadrato del terreno, fino a consumare (dato Ispra) il 22,8 per cento di spazio utile. Un problema, è vero, comune anche ad altre parti d' Italia e anche in tempi più lontani. Basti ricordare che già Leandro Alberti nel XVI secolo spiegava che «essendo tanto moltiplicati gli huomini et non essendo sofficienti i luoghi piani» la cattiva gestione dei territori montani e boscosi dove un tempo «scendevan l' acque chiare fra selve et herbette et scendevano con minor impeto et minor abbondanza» ora erano stravolti e la pioggia «non fermandosi, incontinente scendendo, et seco conducendo la terra mossa» finiva per causare alluvioni e frane «il che così non occorreva nei tempi antichi».
Un problema aggravato a metà del secolo scorso. «Il caso limite è la riviera ligure, dove località già famose per i loro parchi e giardini sono ridotte ad avere venti centimetri quadrati di verde per abitante "estivo", e dove l' indice di affollamento supera d' estate quello del centro di Londra», scriveva sul Corriere già nel 1966 Antonio Cederna.
Per non dire delle furenti reprimende di Indro Montanelli: «Purtroppo io ho visto una cosa: che appena si apre un rigagnolo di strada e il rigagnolo diventa torrentello, il torrentello diventa fiume e il fiume diventa il Rio delle Amazzoni, è il veicolo del cemento che si mette scalare la montagna». Evidentemente, sospirava, «il buon Dio fece il "giardino d' Europa" in un momento d' indulgenza e di abbandono.
Poi si accorse della propria parzialità e la corresse mettendoci come giardinieri gl' italiani». Amarissima la conclusione: «È più facile combattere la mafia, il delitto d' onore e l' abigeato che la pacchianeria e l' indifferenza alle bellezze naturali e paesaggistiche».
Perché ricordare, oggi, quei moniti lontani? Perché i disastri degli ultimi anni, la grande terrazza di Andora scivolato giù dalla scarpata fino al treno intercity Milano Ventimiglia, le esondazioni dei torrenti Bisagno e Fereggiano e Polcevera, la collina slittata in mare tra Nervi e Bogliasco, la frana di Laigueglia, lo schianto di ieri e su tutti il crollo del viadotto Morandi, dicono che troppi nodi stanno venendo al pettine. E che l' Italia deve prendere i problemi di petto.
Siamo bravissimi, dicono tutti, negli interventi di emergenza. Ma non ne possiamo più di intervenire solo «dopo». Quando si contano i danni, i feriti, i morti. Costano in media due miliardi l' anno, secondo uno studio del Cineas, il Consorzio del Politecnico di Milano che si occupa della cultura del rischio, gli interventi di emergenza «dopo» ogni calamità più o meno naturale.
L' Ance, cioè l' associazione dei costruttori si spinse, tempo fa, a calcolare cifre ancora più alte: «Il costo complessivo dei danni provocati in Italia da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di euro».
Non si tratta neppure di soldi. Lo Stato, i ministeri, le regioni, risultano averne qua e là diversi. Sei miliardi rimasti ancora da spendere del Fondo Italia Sicura. Tre abbondanti dati da gestire alla Protezione civile. Altri tre nella pancia delle Regioni, soprattutto della Sicilia e della Campania. Trecento milioni nelle casse di vari ministeri, dall' ambiente alle infrastrutture, dagli interni all' agricoltura. Quelli che mancano sono i progetti. L' intenzione di partire sul serio. La volontà di decidere.
Purché non vada a finire come dopo la disastrosa piena del Tevere del 15 d.C. Quando, racconta Tacito, le discussioni intorno ai provvedimenti che potevano essere presi furono così tante ed accese che «si finì con l' accogliere il parere di Pisone, ossia di non fare nulla».