"ABBIAMO COLPITO LA POPOLAZIONE MA NON C'ERA NULLA DI PERSONALE…” - SALAH ABDESLAM, UNICO TERRORISTA SOPRAVVISSUTO ALLA STRAGE DEL BATACLAN, NON SOLO NON SI PENTE, MA CONTINUA A PROVOCARE: “UNA GIUDICE BELGA HA PARLATO DI TERRORISMO, JIHADISMO. NON SONO TERRORISTI, SONO AUTENTICI MUSULMANI. ABBIAMO COLPITO LA FRANCIA PERCHÉ BOMBARDAVA LO STATO ISLAMICO. VOLEVAMO FAR PROVARE LO STESSO DOLORE"
-Anais Ginori per "la Repubblica"
«Sì, abbiamo voluto colpire la Francia per rispondere ai bombardamenti sullo Stato islamico». Salah Abdeslam riconosce la sua colpevolezza e con l'ennesima provocazione tenta di giustificarsi. Al sesto giorno di processo sugli attentati del 13 novembre 2015, la parola alla difesa. Non è ancora svanita l'emozione dell'udienza in cui sono stati elencati i nomi delle 130 vittime, la più giovane Lola non era ancora maggiorenne, ed è già il momento di ascoltare gli imputati. Dietro ai vetri blindati, alcuni si scusano, hanno la voce che trema, parlano della sfortuna di essere finiti nel giro sbagliato. Non è la Norimberga del terrorismo islamico perché gli esecutori degli attacchi sono morti e i mandanti sono assenti, forse uccisi in Siria. Alla sbarra, personaggi di seconda e terza fila, jihadisti quasi per caso, creando un misto di frustrazione e rabbia.
L'unico che non rinnega, anzi contrattacca, è lui. Il kamikaze riluttante che quella notte non s' è fatto esplodere come il fratello Brahim e gli altri compagni "martiri". Sa che rischia l'ergastolo alla fine del percorso giudiziario che durerà 9 mesi. Ha esordito nei primi giorni sfidando i giudici nella nuova maxi-aula sull'Île de la Cité, presentandosi come "combattente islamico", mettendo "l'unico Dio Allah" sopra alla giustizia degli uomini. E ieri, quando il suo microfono si accende, non si fa sfuggire l'occasione. «Una giudice belga ha parlato di terrorismo, jihadismo», commenta a proposito della deposizione avvenuta il giorno prima. «Sono termini che creano confusione. Io dico che non sono terroristi, sono autentici musulmani».
Il trentenne belga-marocchino - fisico palestrato, giacca alla moda - riprende una domanda posta dai giudici ad altri testimoni. «Perché abbiamo colpito la Francia? Perché è il Paese che bombardava lo Stato islamico senza fare distinzione tra uomini, donne e bambini. Abbiamo voluto che la Francia provasse lo stesso dolore». Aggiunge una frase che risulta insopportabile a molti: «Certo, abbiamo colpito la popolazione ma non c'era niente di personale».
Abdeslam cita l'allora presidente Hollande che aveva varato l'intervento militare con l'Isis. «Sapeva che la sua decisione avrebbe portato i francesi a incontrare la morte», dice, ricordando Chirac che nel 2003 rifiutò di partecipare alla guerra in Iraq. «Perché si rendeva conto che avrebbe provocato un movimento di odio anti-francese». Prima di concludere, con lo sguardo un po' allucinato, Abdeslam si rivolge all'aula, meno affollata del solito.
Pochi parenti delle vittime sono presenti, forse nel timore di dover incassare pure le sue invettive. Nei giorni scorsi qualcuno gli ha gridato "bastardo", "pezzo di merda". Ora è calato il silenzio. «So che alcuni dei miei propositi possono urtare le anime sensibili. Lo scopo non è girare il coltello nella piaga, ma voglio dire la verità alle vittime. Il minimo che devo loro è essere sincero».
Hamza Attou, uno dei tre amici che aveva riportato Abdeslam in Belgio la notte del 13 Novembre, spiega: «In nessun momento volevo fare terrorismo». Un altro imputato, Farid Kharkhach, dice quasi in lacrime: «Ho fornito falsi documenti ma non immaginavo che servissero a un massacro». Yassine Atar, fratello minore del mandante Oussama Atar (presunto morto in Siria), ripete più volte: «Quello è mio fratello, non sono io». All'uscita dal processo, i due legali che difendono Abdeslam chiedono ai media di non enfatizzare le dichiarazioni del loro cliente.
«Non dobbiamo trasformare questo processo in un frastuono permanente», commenta Martin Vettes. «Siamo consapevoli che qualsiasi cosa faccia o dica sarà odiato» riconosce. «Ma è presente e parla, e già questo non era scontato». Salah parla e ora molti si chiedono come evitare che il maxi-processo immaginato come una catarsi collettiva non si trasformi in un megafono della sua propaganda.