"IO DA QUI DEVO USCIRE" - MUSA BALDE, IL RAGAZZO CHE SI E' SUICIDATO NEL CENTRO DI PERMANENZA DI TORINO, NON CAPIVA PERCHE' DOPO ESSERE STATO PESTATO SELVAGGIAMENTE DA TRE ITALIANI FOSSE FINITO IN QUESTURA E POI AL CENTRO DI PERMANENZA TEMPORANEO (NON ERA IN REGOLA CON I DOCUMENTI MA SI SENTIVA VITTIMA: DOPO L'AGGRESSIONE, IL RIMPATRIO) - DUE GIORNI PRIMA DI IMPICCARSI, AVEVA DETTO AL SUO AVVOCATO...
-Irene Famà Giuseppe Legato per "la Stampa"
«Io da qui devo uscire. Devo trovare il modo di andarmene». Due giorni prima di togliersi la vita, impiccandosi nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino, Musa Balde, 23 anni, lo ha ripetuto più volte al suo avvocato. Nessuno l'ha visto nelle sue ultime ore: in isolamento per questioni sanitarie nell'Ospedaletto della struttura alla periferia sud della città, Musa era solo. Con il suo legale, 36 ore prima del suicidio, ha ripercorso le tappe che l'hanno portato in Piemonte.
Vittima di un'aggressione brutale il 9 maggio a Ventimiglia, preso a sprangate, a pugni sul volto e sul costato da tre italiani, il 10 maggio si è ritrovato al Cpr di corso Brunelleschi. E i suoi aguzzini denunciati a piede libero per lesioni. Perché? Vittima di una violenza selvaggia, Musa aveva una "colpa", quella di non essere in regola con i documenti. Originario della Guinea, era in Italia da circa cinque anni, ma tecnicamente era un «irregolare».
Così, dopo essere stato aggredito fuori da un supermercato in Liguria, si è ritrovato prima in ospedale poi in Questura ad Imperia e infine al Cpr di Torino in attesa di essere rimpatriato. Le sue condizioni di salute gli impedivano di condividere gli spazi con altre persone.
Ha trascorso gli ultimi giorni da solo a chiedersi cosa fosse successo, come fosse finito lì, rinchiuso in un centro per i rimpatri. Vittima, certo. Ma non abbastanza per essere "salvato" dalle rigide norme sull'immigrazione. «Continuava a chiedere come potesse essere finito al Cpr dopo essere stato aggredito» racconta il legale Gianluca Vitale, specializzato sui profili di assistenza giuridica ai deboli.
Lo ha incontrato il 21 maggio: «Ripeteva la sequenza degli eventi: botte, ospedale, questura, Centro di permanenza per il rimpatrio». Le prime notizie sull'aggressione, filmata da una donna che aveva assistito alla scena dal balcone di casa, parlavano di un tentato furto di un cellulare. «Non ho cercato di rubare nulla. Stavo chiedendo l'elemosina e quei tre mi hanno riempito di botte. Una signora mi aveva risposto che non poteva darmi nulla e come una furia sono arrivati in gruppo a picchiarmi» ha raccontato Musa nel corso del colloquio.
«Da quello che potuto ricostruire - aggiunge Vitale - non ha avuto modo di parlare con alcun magistrato». Quel che è certo è che 24 ore prima di togliersi la vita, impiccandosi con un lenzuolo, «era molto provato». La procura non attenderà l'arrivo a Palagiustizia di eventuali esposti, ma aprirà un fascicolo, al momento contro ignoti, con l'ipotesi di «morte in conseguenza di altro reato».
Che nel caso in questione potrebbe essere un'omissione nell'assistenza psicologica ricevuta. Ciò consentirà al pool guidato dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo di effettuare tutta una serie di accertamenti. Primo fra tutti, se la vittima, una volta trasferita a Torino, sia stata «seguita» nel modo corretto.
«Con un'aggressione di quel genere - spiega l'avvocato Vitale - avrebbe dovuto essere fatto un consulto psichiatrico». A quanto si apprende da fonti della Questura, questo sarebbe avvenuto due giorni dopo il suo ingresso nella struttura. Da quando Musa ha incontrato il suo avvocato al momento in cui si è suicidato sono passate 36 ore. Gli unici a vederlo sono stati gli operatori del Centro sentiti dalla Squadra Mobile.
Dovevano somministrargli una terapia. «Era taciturno, ma non ha detto nulla che potesse fare pensare a un epilogo del genere» hanno raccontato agli investigatori. Eppure, l'aggressione disumana che aveva subito era nota. Filmata dai passanti, finita sulle cronache.