"NON FATE CASO ALLE DICHIARAZIONI RUSSE, LE PAROLE E LE AZIONI DIVERGONO" - GLI UCRAINI CI VANNO CAUTI CON L'ANNUNCIO IN DIRETTA TV DA PARTE DEL GENERALE RUSSO SERGEY SUROVIKIN DEL RITIRO DELLE TRUPPE DA KHERSON, E ASPETTANO PER CANTARE VITTORIA - GLI OPINIONISTI RUSSI INVECE SEMBRANO PRENDERE L'ANNUNCIO DI SUROVIKIN MOLTO SUL SERIO, ANCHE PERCHÉ KHERSON NON SI POTEVA PIÙ TENERE, VISTO CHE LE TRUPPE DI KIEV…
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Anna Zafesova per “la Stampa”
Ora è chiaro con quali criteri Sergey Surovikin è stato scelto come comandante dell'invasione russa in Ucraina. Con la sua faccia burbera, lo sguardo assassino, la voce da automa e le grandi mostrine decorate inquadrate amorevolmente dalla telecamera in ammirati primi piani, il pluridecorato generale era il primo personaggio mediatico ad affiancare e quasi oscurare Vladimir Putin.
Fino a quel momento il presidente russo era stato attento ad apparire come unico stratega della conduzione della "operazione militare speciale", e alcuni commentatori, russi e stranieri, avevano addirittura iniziato a parlare di un "Napoleone siriano", individuando nel distruttore di Aleppo il potenziale "delfino di Putin", il casting più o meno esplicito per il quale è già stato inaugurato perfino negli ambienti più lealisti del regime.
Ma appena un mese dopo, il generale Surovikin è diventato il volto della sconfitta: è a lui che la sceneggiatura del Cremlino ha affidato il ruolo ingrato di annunciare la ritirata dell'esercito russo da Kherson, anzi, di proporla davanti alle telecamere, aspettando l'approvazione del ministro della Difesa Sergey Shoigu, un altro ipotetico "delfino" ormai molto emarginato e penalizzato mediaticamente.
L'annuncio della resa di Kherson in diretta televisiva appare talmente scenografico e plateale da
sembrare quasi uno spettacolo, e non a caso Kyiv non si fida a cantare vittoria. Il consigliere di Zelensky Mykhailo Podolyak dichiara di «non fare caso alle dichiarazioni russe, le parole e le azioni divergono, una parte cospicua delle truppe russe rimane a Kherson», e il capo dello staff presidenziale Andriy Ermak è ancora più esplicito nel denunciare una messinscena: «Qualcuno pensa di essere molto furbo, ma noi siamo un passo avanti», ha commentato sul suo canale Telegram.
La portavoce del comando Sud delle truppe ucraine Natalya Gumenyuk parla di «uno show allestito appositamente» per una operazione di disinformazione, e anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg condivide la prudenza degli ucraini: «Siamo al corrente delle dichiarazioni russe su Kherson, ma aspettiamo conferme dal terreno».
È un gioco di nervi, dove la componente mediatico-propagandistica della guerra è importante quanto quella militare, e gli ucraini - l'attesa della riconquista dell'unico capoluogo regionale caduto nelle mani dei russi dall'inizio dell'invasione dura ormai da mesi - preferiscono non cadere vittime di facili entusiasmi, e meno che mai precipitarsi in un'avanzata che rischia di inciampare su terreni minati e imboscate di russi rimasti in città.
Chi fa la faccia da poker teme a sua volta un bluff, ma l'ipotesi di una resa "vera" di Kherson potrebbe trovare conferma non tanto nel pianto collettivo di tutti gli opinionisti "patriottici" russi - che sembrano prendere l'annuncio di Surovikin molto sul serio - quanto nella realtà oggettiva. Kherson non si poteva più tenere, non più da quando, già a metà luglio, l'Ucraina aveva cominciato a martellare i suoi ponti con i missili Himars americani, tagliando i rifornimenti degli occupanti russi.
Secondo alcune voci che circolavano a Mosca, i militari russi avrebbero chiesto a Putin di abbandonare la città già a settembre, incassando un deciso "niet": il presidente russo aveva spinto anzi per una "annessione" dei territori ucraini occupati, e i suoi propagandisti avevano minacciato l'uso di armi nucleari tattiche per difendere quello che, almeno sulla carta intestata del Cremlino, veniva dichiarato "territorio russo".
I manifesti dei bambini rigorosamente biondi russi e ucraini che sorridono allo slogan "La Russia è qui per sempre" oggi appaiono ancora più ridicoli, ed è per questo che la ritirata probabilmente si terrà: nessuno si sottopone a una umiliazione così esplicita se può evitarlo, meno che mai un leader vanitoso e ossessionato dalla propria infallibilità come Putin.
Un fine conoscitore del Cremlino come Andrey Pertsev, il cronista politico del giornale dissidente Meduza, ha scritto di recente che Putin ha perso la componente razionale che lo costringeva a tenere conto delle sue reali possibilità, e che il mix di paranoia, delirio di onnipotenza e ideologia nazional-sovietica che alimenta il suo regime non permette più di sperare in comportamenti dettati dalla ragione.
Probabilmente il leader russo avrebbe voluto continuare a buttare nella voragine di Kherson altre migliaia di neoreclute, e non è un caso che il generale Surovikin cita come motivo principale della ritirata «salvare le vite dei militari», e un altro falco come il capo ceceno Ramzan Kadyrov lo applaude pubblicamente. Come scrive il politologo Abbas Galyamov, questa frase si traduce dalla retorica burocratico-propagandistica come «ci ritiriamo altrimenti ci fanno a pezzi», e la domanda è semmai chi, al vertice dell'esercito, sia riuscito a far ammettere a Putin una realtà devastante per lui e per il suo elettorato nazionalista più fedele: Kherson, «terra russa per sempre», non poteva che tornare all'Ucraina.
E non è un caso che l'annuncio è stato affidato ai due comandanti militari della guerra: le vittorie sono del presidente, le sconfitte dei suoi sottoposti, e l'idolo dei falchi Surovikin, con i suoi bombardamenti delle città ucraine, forse è stato messo al comando, già un mese fa, proprio con l'intenzione di affidargli una gestione mediatica della sconfitta che la rendesse meno umiliante.