SE L'ANIMALE SOFFRE, CHI LO MANGIA S'AMMALA - ARRIVA L'ETICHETTATURA NAZIONALE SUL BENESSERE ANIMALE, CHE INDICA AI CONSUMATORI LE CONDIZIONI DEGLI ALLEVAMENTI DEGLI ANIMALI PRIMA DI ARRIVARE SULLE NOSTRE TAVOLE - GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI, DOVE MOLTI ANIMALI SONO CONCENTRATI IN SPAZI RISTRETTISSIMI, AUMENTANO LA POSSIBILITÀ DI SVILUPPARE MALATTIE CHE POSSONO ESSERE TRASMESSE ALL'UOMO E  L'USO ECCESSIVO DI ANTIBIOTICI STA PORTANDO A UNA MAGGIORE RESISTENZA TRA I BATTERI, ALIMENTANDO IL...

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Paolo Russo per “la Stampa”

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Pesci allevati in condizioni tali da dover assumere antidepressivi per non lasciarsi morire smettendo di mangiare. Polli e galline tirati su in gabbie più piccole di un foglio A4, senza poter razzolare né aprire le ali, tanto da passare immobili i due terzi della loro esistenza, appollaiati sui propri escrementi con inevitabile insorgere di malattie varie. E poi vitelli, ovini e suini super-alimentati e stipati in allevamenti intensivi, dove gli antibiotici per la loro crescita sono stati abrogati dall'Ue nel 2006, ma vengono comunque somministrati massicciamente per contrastare le malattie che insorgono nelle stalle-alveari.

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Secondo l'Oms per produrre un chilo di carne vengono in media impiegati 100 milligrammi di antibiotici, col risultato che ogni anno 9 grammi di quegli antibiotici finiscono nel nostro stomaco: l'equivalente di 4 terapie antibiotiche. Così si alimenta il fenomeno dell'antibiotico-resistenza dei super batteri, che secondo l'Iss causa in Italia di 11mila morti l'anno, un terzo di tutte quelle registrate in Europa. Questo anche perché, magari senza saperlo, mangiamo bistecche e hamburger di animali allevati in Paesi dove non esistono le norme che da noi impongono di smaltire gli antibiotici prima che l'animale diventi carne o produca latte o uova.

 

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Nonostante la maggiore attenzione posta negli ultimi anni dai produttori al benessere animale, molto del cibo che finisce sulle nostre tavole, compresi uova, latte e formaggi, nuoce alla salute, ma anche all'ambiente. «La produzione di mangime e foraggio, l'occupazione delle terre da parte dei sistemi intensivi sono tra i principali responsabili degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d'acqua del pianeta», spiega la Fao. Quell'acqua da noi già così scarsa, ma che viene sempre più drenata dagli allevamenti intensivi.

 

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 Per non parlare dei gas serra emessi dagli allevamenti intensivi: «43 milioni di tonnellate solo per l'itticoltura», rivela Agnese Codignola, farmacologa e autrice di numerosi libri sull'alimentazione. «Un terzo del pesce di allevamento - spiega - non arriva a tavola ma diventa nutrimento per altri pesci più pregiati, con grande spreco di energie e relative emissioni che potrebbero essere evitate allevando per il nostro nutrimento direttamente le specie considerate meno pregiate».

 

Considerazioni da fare quando a un piatto di alici si preferisce un'orata low cost di allevamento. Tra non molto sarà possibile scegliere cosa mettere nel piatto considerando anche le condizioni di benessere nelle quali l'animale è stato allevato. Questo grazie al decreto che istituisce l'etichettatura nazionale volontaria sul benessere animale, fortemente voluto dal ministro della Salute, Roberto Speranza.

 

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Il provvedimento (prima di andare in Gazzetta ufficiale dovrà ottenere il via libera della Commissione Ue), è stato salutato da un coro di approvazione da parte delle 14 associazioni ambientaliste e animaliste dell'alleanza #BugieInEtichetta. «Un primo passo, che dovrà essere seguito dalla definizione degli standard di benessere per le varie specie», affermano le associazioni. Che invitano i partiti a far sapere ai cittadini-elettori le loro intenzioni «sulla definizione di standard coerenti con il benessere animale: 1,4 milioni di italiani hanno già chiesto di eliminare le gabbie dagli allevamenti».

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«Le condizioni in cui gli animali da allevamento sono costretti a vivere - sostiene Slow food, che dell'alleanza non fa parte - hanno gravi ripercussioni: si sviluppano nuove malattie che possono essere trasmesse all'uomo, l'uso eccessivo di antibiotici sta portando a una maggiore resistenza tra i batteri, e i reflui sono una delle maggiori fonti di emissioni di gas clima alteranti». Da qui la richiesta di una politica agricola che - a livello comunitario oltre che nazionale - sostenga agricoltori e allevatori che abbiano a cuore il benessere degli animali.

 

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E della nostra salute, ricorda l'Associazione Medici per l'Ambiente, che ha individuato tutta una serie di rischi per l'uomo connessi agli allevamenti intensivi. Tra questi c'è il rischio di zoonosi, perché «l'alta concentrazione di animali favorisce lo sviluppo di malattie, comprese quelle che dall'animale passano all'uomo. Tra queste c'è la salmonella che provoca gastroenteriti anche gravi e che un'indagine dell'Efsa, l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare, ha rilevato in un allevamento europeo su quattro.

 

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 Ma poi ci sono batteri come l'escherichia coli, responsabile di cose come coliti emorragiche e insufficienza renale, oppure lo staffilococco aureo, batterio antibiotico resistente che fino a ieri frequentava più che altro le corsie degli ospedali, ma del quale un clone che deriva da produzioni animali intensive circola ora liberamente tra la popolazione dei Paesi con elevata presenza di allevamenti industriali.

 

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Come il nostro, dove la produzione di bovini, suini, polli e galline si concentra in quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. Tanto per capire: in terra lombarda vengono allevati 4,4 milioni di maiali, il 50% della produzione nazionale. Gli allevamenti però sono solo il 9% del totale. Questo la dice lunga sugli spazi angusti nei quali crescono gli animali. Non possiamo lamentarci se, una volta finiti a tavola, fanno male alla nostra salute.