Paolo Salom per “il Corriere della sera”
Dieci milioni di esseri umani pesano. Come pesano i grattacieli di cui va orgogliosa Giacarta, la perla dell' Indonesia, capitale della nazione islamica più popolosa del mondo.
Costruita su un bassopiano a soli sette metri sul livello del mare, la megalopoli affonda letteralmente sotto il proprio peso. Quel che può apparire un' iperbole è una realtà scientifica e grandi settori urbani di fatto (soprattutto a nord) sono già scesi sotto il livello marino.
Risultato: inquinamento delle falde acquifere e - per effetto dell' orografia - una propensione alle inondazioni ormai preoccupante anche per un Paese abituato a tifoni e altri disastri, tanto che entro il 2050 l' intera città dovrebbe andare sott' acqua.
Dunque, che fare? Il governo ha prima pensato a un progetto grandioso: un «muro» da costruire sui fondali di fronte alla città, con isole e ponti che amplierebbero di molto la superficie urbana.
Una «meraviglia» che potrebbe essere pronta intorno al 2025 ma che ha tanti punti deboli, a cominciare dai rischi per l' ambiente: danni all' ecosistema (per esempio la barriera corallina), alterazione di correnti e conseguenti minacce alle isole naturali dell' area.
Messo momentaneamente da parte il muro oceanico (ma non scartato), il presidente indonesiano Joko Widodo ha proposto di traslocare la capitale «nel Borneo».
«Vi chiedo il permesso di spostare la nostra capitale nazionale nella provincia di Kalimantan - ha detto Widodo venerdì in Parlamento -. Una capitale non è soltanto il simbolo dell' identità nazionale ma anche la proiezione del progresso del Paese. Dunque questo passo serve per raggiungere maggiore equità economica e sociale».
Joko Widodo, che ad aprile è stato rieletto per un secondo mandato, è da poco rientrato da un viaggio proprio nel Borneo, isola che l' Indonesia «condivide» con la Malaysia e il piccolo sultanato del Brunei. Non ha indicato un luogo preciso dove costruire il nuovo centro vitale, ma qualcuno ha indicato il sonnacchioso villaggio di Palangkaraya come punto di partenza per la nuova «frontiera».
I locali, quando lo hanno saputo - riferiscono i giornali - hanno alzato più di un sopracciglio: non riescono a credere che la loro vita lenta e legata ai cicli della natura (qui meno violenti che nel resto dell' arcipelago) possa essere vicina a una rivoluzione. Ma tant' è: il Borneo è noto per le sue foreste pluviali, gli oranghi, le miniere di carbone e le molte tribù primitive che vivono nella giungla.
Nel complesso ha 16 milioni di abitanti, pochi più della sola Giacarta, e una vita relativamente tranquilla mentre l' Indonesia, oltre 17 mila isole e 270 milioni di cittadini, soffre in gran parte per la sovrappopolazione e i frequenti terremoti-maremoti e le eruzioni vulcaniche. D' altro canto il governo non ha molta scelta. Il problema di Giacarta, una delle città più inquinate del mondo, va affrontato al più presto.
Perché lo sfruttamento intensivo delle falde acquifere, principale fonte di acqua potabile per il 60 per cento dei residenti, ha nel tempo alterato gli equilibri geologici, provocando lo sprofondamento (subsidenza) della superficie, che prosegue da anni al ritmo di 5/10 centimetri ogni dodici mesi, con punte, talvolta, di 20. Naturalmente, costruire una nuova capitale non sarà una cosa semplice.
Il ministro della Pianificazione Bambang Brodjonegoro ha stimato nell' equivalente di 33 miliardi di dollari i costi del progetto. Che eventualmente dovranno accompagnarsi ai 40 miliardi previsti per la barriera marina, destinata comunque a essere edificata: perché Giacarta non sarebbe certo abbandonata da tutti i suoi residenti, che continuerebbero a farne il polo economico nazionale.
Peraltro, i primi 8 chilometri dell' infrastruttura sono già in costruzione (dal 2014). Ma l' intera opera appare al di là di ogni immaginazione: una diga larga 32 km, per un' estensione di 4 mila ettari, con 17 isole artificiali, un aeroporto, un porto, un' autostrada, aree residenziali e industriali. A quel punto: avrebbe davvero senso lasciare Giacarta?
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