LA STATUETTE DEL CONFORMISMO - COME PREVISTO GLI OSCAR PREMIANO L’INCLUSIONE, TEMI SOCIALI E GUARDANO A ORIENTE: LA MERITOCRAZIA LASCIA SPAZIO AL MAINSTREAM E L’UNICO A ROMPERE LE UOVA NEL PANIERE È ANTHONY HOPKINS CHE FA INCAZZARE GLI AFROAMERICANI SUI SOCIAL PER AVER “SOTTRATTO” LA VITTORIA AL DEFUNTO CHADWICK BOSEMAN – LA VERA SCONFITTA È ESSERE PREMIATI SOLO PERCHÉ NON SI È BIANCHI… - VIDEO

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1. LA MERITOCRAZIA SCONFITTA DAL «MAINSTREAM»

Maurizio Acerbi per "il Giornale"

 

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L' immagine perfetta per sintetizzare quello che sono diventati gli Oscar, è Glenn Close, all' ottava nomination e rimasta, per l' ennesima volta, a bocca asciutta. Le è stata preferita, come Miglior attrice non protagonista, Yuh-Jung Youn, la nonna del film Minari, che, sorpresa, ha confessato: «Come ho potuto vincere rispetto a Glenn Close?». Inutile farsi queste domande per un premio che è ormai «pappa e ciccia» tra quella che dovrebbe essere la meritocrazia (sempre meno) e il mainstream (sempre più). Ciò che conta è rispettare il mantra della militanza e dell' inclusione.

 

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Come su una nave da crociera, dove al self service trovi ogni tipo di pietanza, qui il menu di una serata soporifera (in quanti, stoici, hanno resistito alla diretta?) ha servito le prime volte di una miglior regista asiatica (Chloé Zhao, che lo ha diretto in maniera scolastica) e di una attrice coreana non protagonista (Yuh-Jung Youn), come del vincitore più anziano (lo straordinario 83enne Anthony Hopkins, miglior attore grazie a The Father) o di un polpo (il documentario Il mio amico in fondo al mare che ha clamorosamente sconfitto, ed è una vergogna, il meraviglioso Collective).

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Insomma, premi dati secondo una logica sconosciuta a chi paga il biglietto ma che da anni indirizza le scelte impopolari dell' Academy. Che la lobby degli attori influenzi pesantemente il circo delle statuette lo si è capito perfettamente anche domenica notte, quando il Miglior film, il super militante e favorito Nomadland, è stato annunciato prima dei premi ai miglior attori, che è un po' come premiare la nazionale campione del mondo prima del miglior giocatore del torneo. Inclusione. Qualcuno aveva previsto, anzi sognato, la vittoria di un quartetto di interpreti senza bianchi, invece è stato pareggio etnico, con il trionfo della McDormand (già tre statuette, che esagerazione, ma su questa nulla da dire) e quella di Hopkins (sacrosanta), che hanno pareggiato gli Oscar a Daniel Kaluuya (Judas and the Black Messiah) e Yuh-Jung Youn.

 

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A proposito di Hopkins, il suo successo, inatteso, ha mandato su tutte le furie i militanti afroamericani, che hanno riversato la loro rabbia sui social per aver «sottratto» la vittoria al defunto Chadwick Boseman; e poco importa se Hopkins sia tre spanne sopra. Edizione indie, black and pink, da Manuale Cencelli, senza l' asso pigliatutto, a parte Netflix, sempre più centrale, che si porta a casa sette statuette. L' Italia? Non pervenuta, nonostante Pinocchio fosse, per costumi e trucco, decisamente migliore di Ma Rainey' s Black Bottom. La meritocrazia, questa sconosciuta.

 

2. LA GEOPOLITICA DELL'OSCAR. HA DOMINATO IL FILM AMERICANO "NOMADLAND" GIRATO DA UNA REGISTA CINESE, UN PONTE TRA DUE CULTURE. I PREMI PIÙ GLOBALI DI SEMPRE HOLLYWOOD GUARDA A ORIENTE

 

Paolo Mastrolilli per "la Stampa"

 

Gli Oscar sono stati dominati da un film americano, Nomadland, girato da una regista cinese. Pechino li ha boicottati, ma poi ha aperto uno spiraglio, augurandosi che Chloé Zhao possa diventare un ponte fra le due culture.

frances mcdormand, chloe zhao mollye asher dan janvey oscar 2021

Suona familiare? E nel modo sempre più polarizzato in cui viviamo, il cinema può ambire a una funzione di dialogo geopolitico, oltre a cercare di incassare soldi in tutti i continenti? April Reign aveva iniziato a scuotere questo mondo nel 2015, quando lanciando sui social la protesta #OscarsSoWhite aveva denudato il re.

 

E aveva ragione, non solo perché neri e minoranze vincevano poco, ma anche perché nel 2012 il 94% dei votanti per gli Academy Awards erano maschi bianchi. Le cose sono cambiate, anche se la vittoria del bravissimo Anthony Hopkins per The Father come miglior attore, contro il deceduto e favorito Chadwick Boseman di Ma Rainey' s Black Bottom ha rovinato la serata, già andata malissimo con gli ascolti sotto i 10 milioni di spettatori.

 

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In compenso Regina King ha aperto gli Oscar ricordando la sentenza al processo per l' omicidio di George Floyd, e Daniel Kaluuya ha preso la statuetta per Judas and the Black Messiah, primo film prodotto interamente da neri ad ottenere la nomination. Riz Ahmed era il primo musulmano in corsa per Sound of Metal's.

 

Forse alla radice di questa rinnovata attenzione per donne e minoranze c' è uno studio di McKinsey, secondo cui il pregiudizio contro i neri costa a Hollywood 10 miliardi di dollari di incassi all' anno. Però sarebbe ingiusto escludere che il desiderio di equità sia un altro fattore motivante. Infatti nel 2020 il 49% degli invitati a votare per gli Oscar sono stati stranieri, il 45% donne, e il 36% minoranze.

 

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Questi numeri ci portano a Nomadland, oltre alla statuetta come miglior attrice non protagonista, andata alla sudcoreana Yuh-Jung Youn per Minari. Il film è nato dal libro di Jessica Bruder, assistente professoressa di Giornalismo alla Columbia University, che nella migliore tradizione della professione ha mollato tutto per mesi, vivendo con persone costrette dalla Grande depressione a diventare nomadi. Niente di più americano. A trasformarlo in film però ci ha pensato Chloé Zhao, nata in Cina, ma emigrata negli Usa quando frequentava le scuole superiori.

 

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Il nazionalismo di Pechino in genere si eccita, comprensibilmente, quando i suoi cittadini hanno successo nel mondo. Lo stesso era accaduto all' inizio con Zhao, fino a quando non era emersa un' intervista del 2013 in cui diceva che la sua patria era un luogo dove «ci sono menzogne ovunque». A questo aveva aggiunto un colloquio con un sito australiano, secondo cui aveva dichiarato che «gli Usa ora sono il mio paese, in definitiva». A nulla era servita la successiva correzione, con cui il sito aveva chiarito che in realtà la regista aveva detto «gli Usa non sono il mio paese», cioè «not» invece di «now».

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Niente, la damnatio memoriae era scattata, e Chloé era diventata una rinnegata traditrice, al punto che Pechino ha ordinato ai media di ignorare gli Oscar. Se uno domenica digitava l' innominabile sul social Weibo, appariva un messaggio secondo cui «in base alle leggi, regole e politiche vigenti, questa pagina non è stata trovata».

 

Zhao però ha toccato lo stesso i cinesi, recitando i versi di una poesia del Tredicesimo secolo mandata a memoria da bambina col padre, che parlava dell' innata bontà degli esseri umani. Forse anche per questo ieri mattina il Global Times, giornale in inglese della nomenklatura, ha pubblicato un editoriale con cui ha criticato Nomadland, gli Usa, e il tentativo di sfruttare Chloé nella sfida geopolitica epocale in corso, ma si è augurato che lei «possa diventare sempre più matura» e aiutare il dialogo.

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Ciò che continua a sfuggire a Pechino è che dialogare richiede libertà di parola, consentendo le critiche. Ma non è un caso, perché il punto è tutto qui. La Cina vuole demolire il sistema democratico, e quindi non può accettarne le regole basilari.

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