TESTACCIO CHIUSO PER VIRUS – DOTTO: "A OTTOBRE LA FESTA DEI 50 ANNI DEL ROMA CLUB. CINQUE MESI DOPO, IL DESERTO” – LE VOCI DEL QUARTIERE: “SENTI DA CHE PURPITO VIE’ LA PREDICA!...”, DICE LA SIGNORA INDIGENA RESPINTA DAL NEGOZIO DEI CINESI PERCHÉ SENZA MASCHERINA - “MA COME, QUESTI SO’ MARITO E MOGLIE, HANNO TROMBATO TUTTA LA NOTTE E MO’ ARRIVA ER FENOMENO IN DIVISA CHE ME FA’ ‘NA STORIA PERCHÉ STANNO SEDUTI A MEZZO METRO!"
-Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
Ottobre 2019. Testaccio, il cuore del core romanista, è un tripudio di giallorosso per la festa dei cinquant’anni del suo storico Roma Club, a diciotto dall’ultimo scudetto di Totti, Cafu e Batistuta. Bandiere e striscioni alle finestre. La gente in strada, nelle piazze. Tutti felicemente ammassati nella stessa emozione di massa. Migliaia di corpi, lo stesso corpo. A squarciagola. “Grazie Roma”. Antonello Venditti e gli stornelli. Tutti che si toccano, che si abbracciano. Idoli e spasimanti. Lacrime. Aldair, Sebino Nela, Vincent Candela. I poster di Totti, ma è come se fosse vero. “La nostra è una malattia” rivendica un’anziana del posto spezzata dai brividi.
Cinque mesi dopo, il deserto. La malattia non è più un’orgogliosa metafora da condividere in piazza, ma un’allucinazione che si fa fatica a credere reale per quanto irreale. Negozi chiusi, finestre sbarrate. Al posto delle bandiere e dei manifesti con la Lupa e il Pupone, i cartelli alle porte che tentano di spiegare l’inspiegabile e di raccontare l’irraccontabile. “Chiuso per Coronavirus”. Che cazzo è il Coronavirus? Nessuno lo sa, ma tutti ne parlano come di una cosa intima.
Chiusi i locali storici di Testaccio, il rione più godereccio di Roma, il quartiere comunità dove l’indigeno, il barbone, il tossico, il mendicante, l’intellettuale e l’artista convivono serenamente. Una specie di zona franca che ignora le differenze e, dove non le ignora, le cancella. Chiuse le pizzerie, “Remo”, “Nuovo Mondo”, i ristoranti, tutti, “Perilli”, “Felice”, i bar, “Linari”, oddio, chiamarlo bar è una bestemmia, un’istituzione a Testaccio, il luogo dove ogni santa mattina si celebra il rito identitario del riconoscimento e della chiacchiera del più e soprattutto del meno, da disperdere nella caciara dei tavoli e negli abissi del palato.
Come si misura l’angoscia di uno storico quartiere romano dove solo una minoranza ha letto i saggi di Kirkegaard e sa delle visioni di Bill Gates, il celebre profeta? Non si misura, si taglia a fette. Si respira dietro le mascherine più o meno arrangiate sul volto da mani inesperte, dietro gli sguardi che non guardano, ma fissano il vuoto, punti lontani, attenti solo a decifrare la minaccia. Evita il prossimo tuo. Come fosse la peste. È la peste. La fila al supermercato. Le donne che portano sotto braccio al giardino i loro vecchi e poi nemmeno quello perché non sanno se si può autocertificare o è da codice penale.
I vecchi senza figli, seduti sulle panchine, ognuno la sua panchina, la sua mascherina. Lo intuisci il fiato che diventa affanno e annebbia la vista, sotto la mascherina. Tutti a misurare la distanza, nel quartiere che più di ogni altro ha abolito le distanze.
Nella stranita umanità che d’improvviso si ritrova ad aver passato il confine. Se ne stava comoda al buio in platea a sgranocchiare i suoi pop corn e si ritrova finita dentro lo schermo, risucchiata in un gigantesco “poltergeist”. Miliardi di Alici nel paese dell’Incubo, non più protetti dalla rassicurante glassa della finzione. Povere creature improvvisamente condannate a raccontare qualcosa più grande di loro, per cui non esistono parole e, non essendoci le parole, costrette a replicare quelle degli altri, a loro volta l’eco di qualcosa di cui con sai l’origine. L’eco di che cosa? Meglio non saperlo. L’angoscia di un assedio senza volto, di un nemico invisibile, scoprirsi nudi ancora prima che fragili, senza più l’esoscheletro di un ego coglione che si crede incoronato. Le fessure, ne abbiamo tante di fessure. Troppe. Ogni fessura, una porta per il nemico. La bocca, il naso, gli occhi. Il virus attacca gli occhi. A miliardi, intrappolati come topi in un set che ha solo entrate e niente uscite.
Testaccio era e, chi sa, se tornerà ad essere, il quartiere dei teatri, dei locali di musica, delle scuole di canto e di recitazione, decine, come se il mondo avesse bisogno solo di gente che canta e di gente che finge. Il quartiere dove De Sica girava Sciuscià e Pasolini l’Accattone e Ragazzi di vita. Un quartiere così aperto alla mescolanza e all’ibrido, dove puoi incontrare Giuliano Ferrara a spasso con i suoi cani, Favino o Mastandrea, sotto barbe trascurate, tute e pigiami di chi vive il quartiere come una estensione di casa sua, gli artigiani e i bottegai del posto, la gente chiunque, i tanti questuanti adottati dai locali. Gli accattoni di oggi.
La zingarella che, a tre metri di distanza, allunga la mano e chiede l’elemosina ai due anziani, marito e moglie, seduti sulla panchina di fronte e nemmeno Dio sa come l’eventuale gesto caritatevole possa combinarsi con la richiesta d’aiuto, in assenza del contatto fisico. Dove puoi fare il cattolico tra le panche di “Santa Maria Liberatrice”, la chiesa storica del quartiere, o l’acattolico sulle tombe di Keats, Shelley e Gramsci. Chiusa la chiesa e chiuso il cimitero. Solo le campane che rompono il silenzio e sembra sempre, solo, il suono di un funerale.
Ogni città ha il suo genius loci. Lo spirito del luogo. Esce fuori nelle occasioni estreme. Coronavirus, puoi dirlo forte, è un’occasione estrema. La virile e stralunata malinconia dei milanesi, la teatralità dei napoletani tra lo sberleffo e il macabro, la fulminante, inesorabile sintesi del sarcasmo romano. Gaber, Eduardo, Sordi. A ognuno, il suo. Testaccio è l’anima forte di Roma. Qua nel disagio, scritto rigorosamente con due “g”, il graffio è risata omerica. L’altro suono alla joker di questo incubo, ma quanto liberatorio! “Senti da che purpito vie’ la predica!...”, la signora indigena respinta dal negozio dei cinesi perché senza mascherina.
“Ma come, questi so’ marito e moglie, hanno trombato tutta la notte e mo’ arriva er fenomeno in divisa che me fa’ ‘na storia perché stanno seduti a mezzo metro!”, il barista esasperato appena cazziato da due vigili urbani in ricognizione, il giorno prima della serrata definitiva. Il testaccino purosangue che sbraita contro i vigliacchi che girano mascherati, raccontando del padre che ha fatto El Alamein nel’42, altro che “virus de’ merda!”. E l’alcolista cronico che impreca perché hanno chiuso i bar e non può più ammazzarlo il virus a colpi di vodka e di Campari.
A Testaccio, anche loro, alle sei della sera, sui balconi, affacciati, a ballare, a suonare pentole e a cantare “Azzurro”. Oltre le porte serrate da cui filtra l’odore del minestrone e il rumore delle voci che sembrano sempre alterate, anche quando si danno la buonanotte. Blindati nei propri amabili loculi insieme ai propri amabili resti. La famiglia è sacra da queste parti. E le finestre, concerti a parte, meglio tenerle sbarrate, non si sa mai che il virus infamone possa passare dalle persiane.
I pochi che si affacciano hanno poco da vedere. L’ottusità sinistra dei piccioni che girano intorno con l’occhio allucinato, l’ottimismo dei cani che si annusano senza mascherina e i gatti da cortile, i gatti romani, che cambiano rotta appena vedono avvicinarsi l’umano sospetto e forse infetto. Poco altro. Ah sì, i rider neri che sfrecciano silenziosi in bicicletta e portano il cibo a casa dei bianchi reclusi. Il mondo rovesciato. L’Africa nera che sfama la ricca Europa.