1- “TU MI HAI FATTO SPIARE! HAI MESSO I SERVIZI SEGRETI ALLE MIE CALCAGNA. NON USARE CON ME IL METODO BOFFO!”. URLA AL CAINANO UN GIULIETTO CHE HA PAURA CHE I MEDIA VICINI AL CAVALIERE LO METTANO NEL MIRINO DI UNA CAMPAGNA COME QUELLA SUO TEMPO SCATENATA DAL ''GIORNALE'' CONTRO DINO BOFFO. UNA CAMPAGNA CHE ERA PARTITA DA UN DOSSIER, RIVELATOSI POI IN BUONA PARTE FALSO, CHE FACEVA RIFERIMENTO ALLA PRESUNTA OMOSESSUALITÀ DELL'ALLORA DIRETTORE DI "AVVENIRE" - 2- SEMPRE SUL "FATTO", FA CAPOLINO IL "CLAN MINALESE": "IN QUESTI ANNI NON SONO MANCATE A MONTECITORIO STRANE ALLUSIONI SU “GIULIO E MARCO”, AL PUNTO CHE MILANESE SI È GUADAGNATO IL PERFIDO NOMIGNOLO DI “CAMERIERA DI TREMONTI” - 3- L'AMORALE DELLA TRAGEDIA P4? NON SONO DI SICURO I CENTRO-SINISTRATI DE' NOANTRI A SPAZZAR VIA UN GOVERNO DA BORDELLO TRASFORMATO IN UN COMITATO D'AFFARI: BASTA L'ETERNA, SOTTERRANEA GUERRA TRA I MAL-DESTRI BERLUSCONI E TREMONTI -
1- "TU MI HAI FATTO SPIARE! HAI MESSO I SERVIZI SEGRETI ALLE MIE CALCAGNA" QUELLO SFOGO DI TREMONTI URLATO IN FACCIA A BERLUSCONI AD ARCORE IL 6 GIUGNO 2011
da Il Fatto
"Tu mi hai fatto spiare! Hai messo i servizi segreti alle mie calcagna". Sono parole di Giulio Tremonti, urlate in faccia a Silvio Berlusconi ad Arcore il 6 giugno 2011. Lo racconta tre giorni dopo il vicedirettore di Libero Franco Bechis: "Uno scatto di nervi - scrive Bechis - come mai è avvenuto in 17 anni di rapporto fra i due. È stato uno scatto violento, che ha scosso Berlusconi (...) il Cavaliere lo ha raccontato ad almeno tre interlocutori (...) da loro abbiamo avuto la versione che collima in ogni particolare su quel che sarebbe accaduto in quella stanza: minuti di gelo, terribile, cui sono seguite parole assai grosse, anche minacciose". Pochi giorni dopo il ministro dell'Economia sarà ascoltato dai pm Woodcock e Curcio.
2- GIULIO A BERLUSCONI: "NON USARE CON ME IL METODO BOFFO"
Vittorio Malagutti per Il Fatto
Sono da poco passate le sei di sera del 16 dicembre scorso, quando il sostituto procuratore Vincenzo Piscitelli varca la soglia del palazzo di via XX Settembre a Roma, la sede del ministero dell'Economia. Il pm napoletano deve raccogliere la testimonianza di Giulio Tremonti. Pochi minuti di interrogatorio come persona informata dei fatti.
Ma da lì comincia tutto. Da quel giorno, da quella sera, Tremonti è ufficialmente informato che il suo braccio destro Marco Milanese, l'ex ufficiale della Guardia di Finanza che da almeno un decennio lavora al suo fianco, è sotto inchiesta penale.
Per mesi e mesi però ogni cosa resta al suo posto, come se nulla fosse successo. Tremonti sceglie di non privarsi della collaborazione di Milanese. Quando si trova nella capitale, il ministro continua ad abitare nel lussuoso appartamento in via Campo Marzio (200 metri quadrati, soffitti affrescati) messo a disposizione dal suo collaboratore che ne paga l'affitto (8.500 euro al mese).
Ci vuole la bufera P4, l'indagine sugli affari e l'attività lobbistica di Luigi Bisignani, per convincere Milanese a fare un passo indietro. È il 25 giugno, solo un paio di settimane fa. E il consigliere politico di Tremonti giustifica la sua scelta per "salvaguardare l'importante ufficio dalle polemiche sollevate da una doverosa testimonianza".
Interrogato dai pm napoletani Francesco Curcio e John Woodcock, è stato lui, Milanese, ad indicare il capo di Stato maggiore della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, come la talpa che avrebbe informato Bisignani delle indagini in corso a suo carico. I verbali di quella deposizione, finiti su giornali, alzano il velo sullo scontro tra cordate opposte all'interno delle Fiamme Gialle. Ed è proprio da qui, da questa lotta sotterranea a base di dossier, ricatti e controricatti, che parte il racconto di Tremonti quando viene chiamato, per la seconda volta in sei mesi, a testimoniare di fronte ai magistrati.
È il 17 giugno, a interrogare il ministro sono Curcio e Woodcock, titolari dell'inchiesta P4, ma il verbale viene inserito anche tra gli atti dell'indagine su Milanese. In quelle ore il palazzo della politica è in fibrillazione. Due giorni prima, il 15 giugno, Bisignani è finito agli arresti, un mare di carte, per certi aspetti sconvolgenti, si sta per riversare sui giornali. E anche Tremonti questa volta è costretto a scendere nei particolari di fronte ai magistrati. Particolari spesso imbarazzanti, perchè rivelano i suoi scontri con il presidente del Consiglio, i suoi timori di finire al centro di una campagna mediatica diretta al preciso scopo di distruggerne la credibilità.
Tremonti rivela ai pm di una sua discussione con Berlusconi che risale a pochi giorni prima, all'inizio di giugno: "Se non ricordo male manifestai la mia refrattarietà ad essere oggetto di campagne stampa tipo quella Boffo", dice il ministro. Il riferimento è chiaro, chiarissimo. Tremonti ha paura che i media vicini al Cavaliere lo mettano nel mirino di una campagna come quella suo tempo scatenata dal Giornale contro l'allora direttore di Avvenire, Dino Boffo, reo di aver criticato il premier.
Una campagna che era partita da un dossier, rivelatosi poi in buona parte falso, che faceva riferimento alla presunta omosessualità dello stesso Boffo. Tremonti non ha nessuna intenzione di finire in quel tritacarne mediatico, ma vede i titoli dei giornali del centrodestra. Li interpreta come avvertimenti chiari nei suoi confronti, avvertimenti contro chi potrebbe rappresentare una alternativa politica a un premier sempre più debole.
"Per inciso e in parallelo su alcuni settori della stampa si manifestava una tendenza, una spinta alle mie dimissioni se non avessi modificato le mie posizioni", questo il racconto ai magistrati di Tremonti. Che affronta a muso duro Berlusconi. I due hanno un alterco pesantissimo. È lo stesso Tremonti ad ammetterlo nell'interrogatorio, dicendo di essersi rivolto al presidente del Consiglio in modo "caratterialmente reattivo".
Insomma, a giugno, il tono dell'incontro con i magistrati è ben diverso rispetto alla rapida testimonianza del dicembre precedente. Quella volta, davanti a Piscitelli, il ministro se l'era cavata in pochi minuti. Aveva spiegato il ruolo di Milanese al ministero smentendo due circostanze potenzialmente imbarazzanti che emergevano dalle indagini di Piscitelli. La prima: una presunta collaborazione dell'ex ufficiale della Fiamme Gialle con il suo studio tributario. La seconda: il regalo di un orologio prezioso ricevuto dallo stesso Milanese. "Escludo di aver mai ricevuto il dono in oggetto" taglia corto il ministro. Fine della deposizione.
A giugno invece sta per diluviare. E Tremonti a quanto pare lo sa bene. Diventa un fiume in piena. Spiega ai pm dei suoi forti dissensi per la politica di bilancio con Berlusconi. E quando Curcio e Woodcock gli fanno ascoltare una telefonata agli atti dell'inchiesta tra il generale Adinolfi e il presidente del Consiglio, allora Tremonti non può fare a meno di spiegare.
In quella telefonata il capo di stato maggiore della Finanza si accordano per un incontro in cui discutere del conflitto tra lo stesso Adinolfi e Tremonti. Il ministro non entra nei particolari ma è chiaro quali fossero i suoi timori, i suoi sospetti. Una manovra ai suoi danni in cui avesse un ruolo ben preciso una parte dei vertici della Guardia di Finanza. "Chiedi conferma ad Adinolfi", è la frase che Tremonti avrebbe urlato in faccia a Berlusconi nella fase più concitata della loro discussione.
Al centro dei sospetti c'è una cena a Napoli a cui oltre al generale della finanza avrebbero partecipato anche l'amministratore delegato del Milan Adriano Galliani e Paolo Berlusconi, fratello del premier nonchè editore del Giornale. Il ministro dell'Economia non lo dice apertamente, ma dalle sue parole ai magistrati napoletani emerge chiaramente quale fosse il suo sospetto. Si stava tramando alle sue spalle. E a riferirglielo, spiega Tremonti ai magistrati, era stato proprio Milanese. Lo stesso che gli aveva soffiato la notizia di quella cena napoletana.
3- IL TANDEM CHIACCHIERATO CON MILANESE
Fabrizio d'Esposito per Il Fatto
È stato all'inizio di quest'anno, ai primi di gennaio, che nel Pdl vari ministri e colonnelli percepirono con nettezza una sensazione: "Per distruggere Tremonti useranno Milanese". La riflessione muoveva dal titolo a effetto che riservò il Giornale di Sallusti al ministro dell'Economia: "Tremonti non fare Fini".
Scampato il pericolo della fiducia del 14 dicembre grazie ai Responsabili di Scilipoti, due settimane dopo l'house organ di casa Berlusconi metteva sotto tiro il divo Giulio della Seconda Repubblica. Con le stesse accuse già rivolte al "traditore" Fini: manovra di Palazzo per far cadere B. e andare alle elezioni anticipate, con la sponda della Lega. Scriveva Sallusti: "Tre-monti insiste per andare a votare . Obiettivo: Palazzo Chigi".
II contesto dell'attacco del Giornale era questo: l'inchiesta sulla "Ditta" della P4 di Bisignani e Letta ancora non era esplosa e da Napoli trapelò la notizia di Tremonti sentito per l'inchiesta Viscione-Milanese. La figura del consigliere politico del ministro cominciava a essere ingombrante, ma Tremonti fece finta nulla. Perché?
Un interrogativo ancora più attuale dopo gli sviluppi dell'indagine che hanno portato alla richiesta d'arresto per Milanese e all'affaire della casa di via Campo Marzio. Qual è il legame profondo tra i due? Sull'origine dei loro rapporti esistono varie versioni, ma tutte riconducono al passato di finanziere dell'uomo di Cervinara, in provincia di Avellino.
Un deputato berlusconiano che conosce bene entrambi riassume: "Ogni commercialista che si rispetti ha i suoi agganci nella Guardia di Finanza". Evidente il riferimento alla professione del ministro. Ma poi? In Parlamento, il gruppone del Pdl non ha mai avuto contatti diretti con "l'inarrivabile Giulio, scontroso e altezzoso".
Per deputati e senatori gli uomini del ministero di via XX Settembre cui far pervenire suppliche e richieste di ogni genere sono sempre stati due: il capo di gabinetto Fortunato e il consigliere politico Milanese, a sua volta deputato e molto legato al coordinatore del Pdl campano Nicola Cosentino, che di Tremonti è stato sottosegretario prima di dimettersi perché inquisito per camorra.
In questi anni non sono mancate a Montecitorio strane allusioni su "Giulio e Marco", al punto che Milanese si è guadagnato il perfido nomignolo di "cameriera di Tremonti". Dice un altro parlamentare: "Marco ha un carattere opposto a quello del ministro. È sempre molto disponibile e simpatico e cerca di venire incontro a ogni richiesta". Milanese e Tremonti: una relazione d'amicizia diventata poi triangolare quando l'inseparabile consigliere ha lasciato la moglie e si è fidanzato con la portavoce del ministro, Manuela Bravi. A Montecitorio questo incrocio di rapporti è noto come "il clan Milanese".
Oggi, il "clan Milanese" ha infilato Tremonti nella fase più critica della sua parabola politica. Lo spettro di Scajola incombe su di lui e ad allontanarlo almeno per il momento è la situazione dei mercati, che ieri di fronte alla voce di possibili dimissioni del ministro hanno ballato per tutta la mattinata. Come se il divo Giulio fosse prigioniero contro la sua volontà.
Un prigioniero debole e isolato. Nel governo ormai nessuno lo sopporta più, per la successione al Cavaliere è in corsa sempre più Alfano (ieri il premier lo investito a candidato nel 2013) e nella Lega domina la linea di Roberto Maroni, l'anti-Tremonti per eccellenza. A sinistra poi la sponda con il segretario del Pd Bersani è franata da un mese, dopo la rivoluzione delle urne amministrative e referendarie.
Insomma, il ministro dell'Economia, fino a un anno fa indicato come il salvatore della patria, non ha più un orizzonte. Per la gioia, come ha scritto ieri Dagospia, della filiera Berlusconi-Bisignani-Letta. In questo clima ieri Tremonti ha avuto un lungo incontro con Silvio Berlusconi, all'indomani dello scontro sulla norma salva-Fininvest nella finanziaria, tolta su pressione del Quirinale.
Da Palazzo Grazioli riferiscono che il premier avrebbe comunque "blindato" il ministro, in considerazione della crisi internazionale perché il rischio "sarebbe di finire come Atene". A tavola, all'ora di pranzo, si è seduto pure Gianni Letta, nella doppia veste di sottosegretario di Palazzo Chigi e "ambasciatore" del Colle, preoccupato per una manovra lasciata a metà in caso di dimissioni di Tremonti (che ieri peraltro è stato nominato coordinatore dei ministri dell'Economia del Ppe).
Di qui l'ipotesi di una tregua che potrebbe durare fino all'approvazione della finanziaria. E dopo? Tutto è possibile. Anche perché ieri tra Berlusconi e Tremonti c'è stato solo gelo e rancore, costretti a parlarsi in nome dell'interesse nazionale come chiesto dal capo dello Stato. Il ministro avrebbe minacciato di nuovo le dimissioni.
Sia per le polemiche sul "Frodo Mondadori", sia per l'intervista di B. a Repubblica in cui il Cavaliere dice: "Tremonti si crede un genio e considera tutti gli altri stupidi. Lo sopporto perché lo conosco da tempo. È l'unico che non fa il gioco di squadra. Ma tanto dove va?". Senza contare il Giornale. Ieri due attacchi in prima pagina: "La casa gratis di Tremonti" e "La rivoluzione liberale non si fa perché Tremonti è socialista".
La rottura tra il mondo berlusconiano e il ministro ormai è totale. Resta da capire quando ci sarà l'atto finale e se l'ambizioso Tremonti ha davvero intenzione di mollare tutto, consapevole che le dimissioni sarebbero anche un gesto per difendersi dalle accuse sulla casa pagata da Milanese. Ieri una delle poche note di consolazione gli è arrivata da Umberto Bossi, che sembra aver smaltito le tensioni sulla manovra: "Tremonti è una brava persona, è capace ed è un mio amico".