AFFARI DI GOVERNO E GOVERNO D’AFFARI – PALAZZO CHIGI STUDIA IL RITORNO DELLO STATO IN TELECOM VIA CDP – DALLA MERCHANT BANK DI D’ALEMA AL PIANO ROVATI DI PRODI, QUANDO AL GOVERNO SI SMISTANO GLI AFFARI
Marco Palombi per il “Fatto quotidiano”
È strano, ma le grandi manovre a Palazzo Chigi passano spesso per due crocevia: telecomunicazioni e banche. Il caso di Silvio Berlusconi – che di suo è tanto banchiere quanto tycoon televisivo – è fin troppo ovvio, ma pure il centrosinistra non s’è fatto mancare niente. Ai tempi dell’ultimo governo di Romano Prodi, per dire, i due dossier su cui si impegnarono gli uomini di mano del premier furono lo scorporo della rete Telecom (progetto di Angelo Rovati poi pubblicato dal Corriere della Sera) e la fusione tra Banca Intesa e San Paolo Imi, portata a casa nonostante gli allora Ds sponsorizzassero una liaison tra Torino e Mps.
Le coincidenze sono anche di più se si risale alla madre di tutte le “merchant bank” di Palazzo Chigi, quella che era “l’unica dove non si parla inglese”, giusta la celebre e velenosissima battuta di Guido Rossi. L’avvocato, che allora lavorava per la cordata avversa, marchiò così una esibita subalternità del governo di Massimo D’Alema nei confronti di un certo mondo imprenditoriale e finanziario.
Non si tratta solo di divagazioni storiche, visto che fu quella guerra a costruire il campo di battaglia di oggi: se Cdp verrà usata per tornare in Telecom (ve ne parliamo qui accanto) è anche perché la privatizzazione gestita da Prodi e la vendita a Colaninno benedetta da D’Alema hanno paralizzato l’azienda impedendole investimenti in settori in cui si stava muovendo assai per tempo come la fibra ottica.
Andò così. Nel 1997 il governo Prodi aveva in sostanza regalato il controllo di Telecom a Ifil (Fiat). L’anno dopo, però, veniva defenestrato per far posto al primo e finora unico ex Pci arrivato a Palazzo Chigi. Furono forse le lontane ascendenze sovietiche a spingere D’Alema, siamo a Catania nel dicembre 1998, a mettersi a fare il Bucharin: “Crescete, arricchitevi, investite”. Parole di miele per il ragioniere mantovano Roberto Colaninno, ad di Olivetti, che aveva giusto pronto un piano per scalare Telecom.
Compagni di cordata: un gruppo di imprenditori bresciani, guidato da Emilio Gnutti, Chase Manhattan Bank e Lehman Brothers a prestare bei soldi. I giochi in Borsa iniziano a gennaio, ma raggiungono il picco il 19 febbraio, quando vengono scambiate azioni Telecom per 1.700 miliardi di lire. Il giorno dopo Colaninno annuncia l’Opa sul 100% dell’azienda. L’ad Franco Bernabè tenta allora di reagire proponendo una fusione con Tim che avrebbe reso l’operazione troppo costosa.
Succedono due cose. La prima: D’Alema plaude ai “capitani coraggiosi” e, col ministro dell’Industria Pier Luigi Bersani, riceve Colaninno a Palazzo Chigi. La seconda: il premier (con l’avallo del ministro Carlo Azeglio Ciampi) ordina prima a voce e poi con una lettera all’allora dg del Tesoro, Mario Draghi, di non farsi vedere nell’assemblea dei soci che doveva votare la fusione con Tim. Il ministero aveva ancora il 3,5% di quote Telecom e con gli altri investitori pubblici (assenti pure loro) avrebbe consentito all’assemblea di superare la soglia legale del 30% delle azioni.
A maggio Colaninno e soci avevano comprato il 51% di Telecom per 61 mila miliardi di lire: un terzo erano soldi veri, il resto debiti (circa 29 mila miliardi di lire, equivalenti a 15 miliardi di euro). Insomma fu la stessa Telecom a pagare la scalata dei “capitani coraggiosi”. Con questi risultati: nel 2000 il gruppo Telecom aveva 120 mila dipendenti in Italia, un debito di 8,1 miliardi di euro e un patrimonio immobiliare di 10 miliardi; a fine 2006 il debito era 37,3 miliardi, i dipendenti 40 mila in meno, il patrimonio immobiliare azzerato. Il Financial Times la raccontò così: “Una rapina in pieno giorno”.
Non di sole tlc vive però una merchant bank, per quanto non anglofona. E infatti in quell’inizio del 1999 D’Alema non ricevette a Palazzo Chigi solo Colaninno, ma pure il presidente di Unicredit, Lucio Rondelli, e quello della Banca di Roma, Cesare Geronzi. Incontro non confermato, ma secondo la leggenda avvenuto a casa di Alfio Marchini, pure con Enrico Cuccia.
Accadeva che il San Paolo – corsi e ricorsi – fosse interessato a prendersi la Banca di Roma: Geronzi, Cuccia e il governatore Antonio Fazio erano contrari. La spuntarono loro. Banca di Roma poi ebbe un ruolo nella non semplice ristrutturazione del debito dei Ds, mentre Mps – candidata a fondersi con l’istituto guidato da Geronzi – mise le mani sulla Banca del Salento, attiva nel collegio del Lider Maximo, guidata dal dalemiano Vincenzo De Bustis. Anche qui, a giudicarli dai risultati di oggi, sarebbe meglio parlare un po’ di inglese. Così capisci quando ti fregan