ALTRO CHE SOVRANISMO, SIAMO UN PAESE COMMISSARIATO - DITE A SALVINI E MELONI CHE L'ITALIA NON ESISTE FUORI DALL'UE - IL POLITOLOGO PIERO IGNAZI: "CHI INVOCA IL RITORNO ALLE COMPETENZE NAZIONALI PER RIPORTARE L’UE A QUELLA CHE ERA CINQUANT’ANNI FA, SCONTA UNA EMARGINAZIONE DAI PROCESSI DECISIONALI. E UNA DIFFIDENZA DA PARTE DELLE CLASSI DIRIGENTI INTERNAZIONALI. L’AFFILIAZIONE A UN PICCOLO GRUPPO DI OPPOSIZIONE EUROSCETTICO NON CONSENTE DI INCIDERE SUI PROCESSI DECISIONI. SALVINI E MELONI NON SI SONO ANCORA RESI CONTO DELL’IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE SOVRANAZIONALE DELLA POLITICA"
-Piero Ignazi per https://www.editorialedomani.it
Dal trattato di Maastricht del 1992 in poi, e con una netta accelerazione dopo l’introduzione dell’euro, l’Europa ha scavalcato i confini degli stati nazionali. Decisioni vitali per l’economia vengono discusse, contrattate e infine decise nelle istituzioni comunitarie.
Il triangolo decisionale investe tre attori principali – più altri non secondari come la Bce e la Corte di Giustizia del Lussemburgo: la Commissione, composta da un membro per ogni paese aderente, che agisce come una sorta di governo; il parlamento che è eletto dai cittadini europei, ma rimane ancora privo di una vera e autonoma potestà legislativa perché deve accordarsi con il governo, cioè con la Commissione; e infine il Consiglio europeo che riunisce i capi di governo e di stato degli stati membri e che è divenuto il vero cuore politico dell’Unione: dalle sue riunioni partono gli input politici alla Commissione che li traduce in norme accordandosi con il Parlamento.
Da questa complessa triangolazione nascono decisioni che impattano direttamente sulle legislazioni dei singoli paesi. Ciò avviene in maniera diretta, attraverso i cosiddetti regolamenti, o tramite una approvazione (vincolante) che i singoli parlamenti devono adottare, le cosiddette direttive.
I sostenitori della Brexit hanno fatto aggio proprio sul rifiuto di una intromissione “straniera” nell’attività del parlamento di Westminster; e se a questo aggiungiamo una cultura nazionale intrisa di orgoglio insulare, succhiato con latte materno e rinfocolato in ogni testo scolastico, è evidente che non ci fosse scampo per i difensori dell’appartenenza all’Ue.
Ben diverso fu il primo referendum indetto sulla permanenza nell’Unione svoltosi nel 1975 quando i favorevoli all’Europa volarono al 67 per cento. Ma allora il diritto comunitario non aveva nemmeno lontanamente la pervasività e l’incidenza che ha oggi.
Per questo molti analisti sostengono che la nuova frattura destinata a ridefinire gli schieramenti politici nel continente passi tra chi accetta una dimensione sovra-nazionale e chi la rifiuta; e più in generale, tra cosmopolitismo-universalismo da un lato, e sovranismo-nazionalismo dall’altro.
LA SPACCATURA
Le ultime elezioni per il parlamento europeo nel 2019 hanno messo in luce come l’opposizione all’Ue rifletta ora, in maniera più chiara rispetto al passato, una dimensione destra-sinistra.
Fino all’inizio del decennio 2010 le ricerche mostravano che c’era una sorta di convergenza anti-Ue tra estrema destra ed estrema sinistra, mentre gli elettori delle formazioni tradizionalmente al governo – i partiti mainstream, come si dice in gergo politologico – continuavano ad assicurare sostegno alle istituzioni comunitarie.
Questo blocco era composto da Socialisti, Popolari e Liberali, a cui dagli anni Novanta si sono aggiunti i Verdi. Ovviamente all’interno di tali gruppi politici c’erano posizioni diverse, basti pensare alla lunga permanenza, terminata solo recentemente, della Fidez di Viktor Orbàn nel gruppo parlamentare dei Popolari, o all’euroscetticismo di Forza Italia fino a tempi recenti. Ma il cuore dell’ Unione batteva, e batte tuttora, al ritmo di queste componenti.
Chi sta fuori da questo nucleo, chi si oppone in termini radicali e ultimativi invocando il ritorno alle competenze nazionali per riportare l’Ue a quella che era cinquant’anni fa, deve poi scontare una emarginazione dai processi decisionali. E una diffidenza da parte delle classi dirigenti internazionali.
Nel parlamento europeo, i cui membri si aggregano non per nazionalità bensì in base ad un allineamento politico-ideologico (sono infatti proibiti gruppi in cui non vi siano deputati di almeno un quarto dei paesi membri ), le scelte sono sempre più “politiche”.
Quindi l’affiliazione a un piccolo gruppo di opposizione euroscettico non consente di incidere sui processi decisioni. L’intuizione del vice-segretario leghista Giancarlo Giorgetti di sganciare la Lega da amicizie pericolose e indirizzarla verso lidi più filo-europei nasce da questa corretta lettura della realtà: non si governa un grande paese del continente contro quegli eurogruppi che indirizzano la politica dell’Unione. Beppe Grillo l’aveva capito quando tentò, goffamente, di sganciarsi dal furore eurofobico dell’UKIP di Nigel Farage con cui conviveva a Strasburgo.
Solo nel 2019 Giuseppe Conte e Luigi Di Maio hanno concretizzato il passaggio in direzione filo-europea votando per la von der Leyen.
Matteo Salvini, e anche Giorgia Meloni, benché la leader di FdI si muova con più accortezza, non si sono ancora resi conto dell’importanza della dimensione sovranazionale della politica. E questo è un problema per il nostro sistema politico, nella prospettiva di una loro presenza stabile in un futuro governo.