1. DAGLI ANNI A "REPUBBLICA" ALLA POLITICA, PARLA PAOLO GUZZANTI: “BERLUSCONI? LO LASCIAI PERCHÉ SI SCHIERÒ CON PUTIN, OGGI VEDO CHE DESTRA E SINISTRA SONO CON LUI..."
2. ''HO TIMORE CHE QUANDO MORIRÒ SCRIVERANNO SULLA MIA LAPIDE “IMITÒ PERTINI”. MA LA TELEFONATA CON ARBORE L’AVEVAMO UN PO’ CONCORDATA - L'INCONTRO CON SCALFARI UN MESE FA: GLI DICO CHE STO SCRIVENDO SUL ’43 E LUI MI FA: "A QUEL TEMPO ERO FASCISTISSIMO"
3. ''NON HO FATTO NULLA AL MEGLIO DELLE MIE POSSIBILITÀ. ORA PENSO A UN LIBRO SULLE DONNE CHE VORREI INTITOLARE "L’INVENZIONE DELLA FICA". IL PIACERE E IL DOLORE SONO I DUE JOYSTICK CON CUI VENIAMO GOVERNATI. QUINDI FICA, SCHIAFFI, SCHIAFFI, FICA, CULO, CAZZO"
Francesco Aliberti per www.ilfattoquotidiano.it
«Dottole non c’è, dottole è paltito. Aspettato tanto, poi uscito a fale tagliando al policlinico dei dottoli polacchi. A fale tagliando tutto completo». La voce dal citofono del collaboratore domestico filippino risuona metallica nella strada.
Nessuno capirebbe che si tratta di un’imitazione, se non fosse che il campanello appena suonato è quello dell’interno nove, che corrisponde all’attuale abitazione del giornalista Paolo Guzzanti, a Roma, appena dietro il Pantheon. «Sono qui per l’intervista». «Vieni su caro, terzo piano». «Ma il filippino è lo stesso di tuo figlio Corrado e Marco Marzocca?» «Eh certo, ma io lo faccio meglio».
Meglio di tutti fai Pertini…
Tu parli della famosa telefonata di Pertini a “Quelli della notte” che con Arbore – lui non vuole che si dica – avevamo in realtà un po’ concordato. Non lo sapevano Ferrini e gli altri. Anche quella, nella nostra intenzione, era una garbata presa per il culo di Pertini. Io Pertini non solo l’ho imitato, ho timore che quando morirò mi scriveranno sulla lapide “Imitò Pertini”.
Ma attraverso Pertini ho decrittato il pertinismo degli italiani: che è un fatto, fondamentalmente, anche di vanità. Poi ho voluto molto bene anche alla moglie e vedova Carla Pertini, con cui diventammo amicissimi. Quando feci alla Versiliana una serie di imitazioni, fra cui Pertini, e qualcuno mi disse: «No, no, c’è la vedova Pertini», lei si alzò, una donnona gigantesca, e disse: «No, no fate parlare Guzzanti! Sandro si divertiva moltissimo». Allora io feci una “pertineide” che durò un’ora ed ebbe un grande successo.
Pertini è la numero uno. La numero due?
Sì, Pertini è la numero uno anche se oggi vedo – segno dei tempi – che Pertini chi se lo ricorda più… Poi facevo Scalfari.
A Repubblica, con la voce di Scalfari, licenziavi i colleghi.
Licenziavo, sì, come il povero Magagnini, che è morto da non molto. Gli feci una telefonata tremenda, credibilissima, perché io avevo la stanza vicino a loro, origliavo e sentivo, quindi gli rifeci tutto l’elenco delle colpe di questo redattore capo che, poverino, io trovavo odioso – ricambiato. Perché lui trovava odioso me e ci siamo odiati con tanto rispetto: talmente tanto, che oggi alla memoria gli voglio bene e rimpiango di non averlo abbracciato, perché era una persona per bene. Lui un comunista livornese, ortodosso, della vecchia scuola; io un anti-comunista. Figurati.
Come Don Camillo e Peppone.
Sì, gli dissi (fa l’imitazione di Scalfari): «Non va bene assolutamente, Franco. Direi che il nostro cammino comune si interrompe oggi. Se vai su da Piana – Piana era l’amministratore del giornale – troverai il compenso della tua liquidazione già pronto in busta» e lui svenne. E poi Scalfari mi chiamò e mi disse: «Mi dicono che fai la mia imitazione. Fa sentì?» e allora io gli dissi (sempre imitando): «Mi dicono che fai la mia imitazione. Fa sentì?» e allora lui disse: «Ma che c’entra, oggi parlo così perché c’ho un po’ di raucedine».
Anche l’imitazione di Ezio Mauro ti riesce bene.
(Imitando Mauro con voce flebile): «Sì, diciamo così, con un po’ l’aria dello spaventato aggressivo che parla con questa sibilante…». Che poi non li distinguo, dico Ezio e Giancarlo Caselli, per me sono la stessa persona. Parlano allo stesso identico modo, con la stessa identica retorica, organizzano le parole e il pensiero nello stesso identico modo. Sono dei binari d’acciaio, guai a chi esce fuori di mezzo millimetro.
Imitatore, giornalista, saggista, romanziere, politico, conduttore tv e di teatro, membro della Fondazione italiana USA, volevi fare il medico. Cosa ritieni di aver fatto peggio?
Tutto, perché non ho fatto nulla al meglio delle mie possibilità. So di essere un ottimo scrittore e quindi ci si aspetterebbe da me un sacco di libri, qualcuno magari pure buono, ma un’accidia invincibile, una depressione che ti agguanta come un artiglio, mi fanno passare giorni dopo giorni dopo giorni senza fare nulla.
La televisione?
La televisione non l’ho fatta bene certamente. Stiamo parlando degli anni Settanta, Ottanta, quindi un’altra cosa. L’ultima cosa che feci fu nel ’96, Bar condicio, che era molto carino, tra l’altro, faceva ottimi ascolti ed era originale come idea. Poi vinse Prodi e il giorno dopo mi chiusero la trasmissione.
Può capitare con i governi che cambiano…
Era già successo quando avevo fatto Rosso di sera, seguii la caduta del muro di Berlino fino alla primavera del ’90, finché il capo della rete, mi disse (imitazione): «Ah Pà, te devo da’ brutte notizie, ha detto Bettino che sto programma tua lo dovemo chiude». Contemporaneamente Eugenio Scalfari diceva (imitazione): «Questa roba che fa Guzzanti è indecente, dobbiamo assolutamente fermarla», per cui io mi trovai di fronte a una sacra alleanza Scalfari-Craxi in cui avevo mandato in bestia entrambi.
Il giornalista lo hai fatto bene?
Il giornalista l’ho fatto bene. A volersi dare le mazzate sui coglioni, ho fatto meno bene di come avrei potuto la copertura da inviato negli Stati Uniti dal ’96 al ’99 perché non sapevo bene l’inglese, che oggi parlo, scrivo e penso correntemente. Allora lo sapevo zoppicando e mi sentivo menomato. Quando il giornale «La Stampa» mi chiese di intervistare Henry Kissinger io svicolai, tardai, rinviai finché decadde la richiesta. Mi terrorizzava l’idea di non saper parlare a tu per tu con Henry Kissinger. Ma questo era un caso psichiatrico.
Lasciasti «la Repubblica» per «La Stampa», facendo infuriare Scalfari.
Avvenne nel ’90, quando Paolo Mieli mi chiamò a «La Stampa», con Ezio Mauro come direttore, ma in realtà negli ultimi due anni di «Repubblica» non ho scritto quasi nulla, ero stato messo nel magazzino delle scope, mi passavano da un supplemento umoristico a un altro letterario per levarmisi dai coglioni…
Perché?
Davo fastidio. Ho questa caratteristica, che pure questa è psichiatrica, ma io cerco di metterla a frutto: la mia insofferenza fisica nei confronti del conformismo, del politicamente corretto, di tutto ciò che è nel mainstream.
Quando vedi che hai delle idee e arrivano altri quattro che dicono «le condivido», allora è il momento di scappare, perché quell’idea diventerà maggioritaria. Avvertivano la mia estraneità: anche se credo che l’estraneità l’abbiano avvertita ovunque io sia andato e qualsiasi cosa abbia fatto.
Però «la Repubblica» degli albori era un’altra cosa: che cosa ricordi tu di quegli anni?
Io ricordo… comincio dalla fine. Un mese fa incontro in una libreria antiquaria, in via Piè di Marmo, Eugenio Scalfari. Cercavo dei libri su Roma perché sto scrivendo una cosa su Roma ai tempi della guerra, e il libraio mi dice: «Legga questo, è importante» ed era La sera andavamo in Via Veneto di Scalfari.
Allora ho risposto al libraio: «Guardi che io non solo ne ho una copia, ma mi vanto di avere la seguente dedica: “A Paolo Guzzanti, creatura bizzarra grazie alla quale Repubblica è quel che è e senza la quale Repubblica non sarebbe quel che è. Eugenio Scalfari”».
Da quanto tempo non vedi Scalfari?
Ecco, qui viene il bello. Proprio in quel momento entra in libreria Eugenio Scalfari, che non vedevo fisicamente da almeno quindici anni. Lo vedo entrare piegato a squadra, perché in tv è abbastanza eretto, ma si vede che ha un problema lombare, con uno sguardo molto luciferino, e gli dico:
«Guarda Eugenio cosa mi hanno appena ricordato». Lui mi guarda – questo c’entra meno con la risposta ma è divertente – e mi dice: «Ma sei diverso», «Sì, sono molto diverso effettivamente», e poi mi dice: «Ma che stai facendo?», gli dico che sto scrivendo sul ’43 e allora mi vuole dire ciò che già ha scritto lui. Nessuna novità, ma il modo, gli occhi, l’intento di essere provocatore…
Mi guarda negli occhi, a 30 cm di distanza, e dice: «Io a quell’epoca – il 1943, quindi l’anno della caduta del fascismo, il 25 luglio e poi l’8 settembre – non ero fascista, ero fa-sci-stis-simo», scandendo, sillabando. Io allora ho detto: «Sì, lo so, sei stato molto onesto, l’hai anche scritto» e lui: «Sì, ma avevo Italo – Calvino, suo compagno di banco al liceo di San Remo – e lui… grazie… per lui fu facile… dietro c’aveva le montagne, se ne andò sulle montagne a fa’ il partigiano. Io stavo a Roma e dietro c’avevo… il Vaticano… e quindi entrai in convento. Non per motivi politici ma di leva, non volevo fare il servizio militare».
La tua scuola è stata con Scalfari?
La mia università è stata Eugenio Scalfari, quando d’estate mi mandava a studiare le origini della borghesia in Europa e io giravo il mondo. Un’altra volta mi mandava fare il reportage, che ne so, sul viaggio di Ulisse; un’altra volta il reportage sulla Repubblica Serenissima di Venezia. E io viaggiavo, vedevo… Poi ho fatto tanto Medio Oriente, tanto Beirut, nei secondi anni Ottanta. Poi America Latina, Salvador: ho scoperto l’America a mio modo, partendo dal basso.
C’è chi ti ricorda in quegli anni cronista, alle manifestazioni, con Sabina in braccio.
Sabina me la portavo in braccio alle manifestazioni. «Papà, andiamo a “Giù le mani dal Vietnam”?» e andavamo a “Giù le mani dal Vietnam”. Mi trovai Sabina in collo durante i tumulti con i fascisti all’università La Sapienza, dove morì lo studente Paolo Rossi, che cadde, non si seppe come.
Corrado?
Meno, Corrado era meno interessato alla politica da bambino. Sabina invece, non so se fui io a contaminarla, certamente lo era. Una volta trovò un cane, un beagle e mi chiese: «Come si dice Paolo in russo?» perché l’avevo imbottita di Rivoluzione russa e non le parlavo che di Trotsky, Lenin e compagnia bella. Io dissi: «Si chiama Pavel, Paolo si dice Pavel in russo» e lei disse: «Allora questo cane si chiama Pavel» . Fu un gesto molto toccante.
Sei stato un padre ingombrante?
Questa è una definizione odiosa, “padre ingombrante”. È come i figli ingombranti, capito, i miei figli sono ingombranti… Spero di essere stato un padre importante, molto controverso per carità, ma importante sì. Sono stato un padre, e spero di esserlo ancora, un padre importante con cui si può litigare molto dal punto di vista delle opinioni.
E io mi ritengo molto autorevole perché ho studiato tantissimo, ecco una cosa di cui vado fiero. Questo mi ha reso, e mi rende, un padre insofferente ed esigente, talvolta anche arrogante. Forse con i figli no, ma col mondo esterno sì. Estremamente seduttivo, però, perché io adoro la seduzione intellettuale verso i bambini, mi piace raccontare loro di tutto… Ho un nipotino di due anni e mezzo…
Figlio di Caterina, come si chiama?
Si chiama Elio, come il suo pro-zio Elio Guzzanti. È stata una scelta molto carina di Caterina, quando morì il fratello di mio padre, di suo nonno, che disse: «Un Elio se ne va e un Elio arriva». E questo bambino è delizioso (tutti i bambini sono deliziosi, ma questo è di una particolare intelligenza). Domenica ho già cominciato a porre le basi dell’Odissea, e lì secondo me bisogna partire da Polifemo. Compirà tre anni a metà novembre. Già litiga con gli abusi sulla lingua italiana perché sostiene che si debba dire “gelatoria” e non gelateria, “pizzaria” e non pizzeria, e quindi c’ha da ridire.
Senti, su di te sono stati dati molti giudizi, qual è quello che ti ha pesato di più?
Voltagabbana, senza dubbio voltagabbana.
Non lo sei?
Io ho sempre voltato la gabbana dove la coscienza e la conoscenza mi hanno portato. L’ho fatto spudoratamente e devo dire sempre in perdita, perché il voltagabbana sarebbe uno che lo fa per interesse personale, cambia casacca. Io sono l’unico che, per esempio nel caso di Berlusconi, è saltato sul suo carro del perdente nel ’99, durante il governo D’Alema, quando contava meno del due di coppe se regna bastoni, e ne sono saltato fuori nel momento della sua apoteosi, dopo le elezioni del 2002. Quello era il 2008, per motivi che…
Hanno attribuito la tua uscita da Forza Italia al fatto che difendevi Sabina dalla Carfagna.
Tutte stronzate. Io lasciai Berlusconi perché si schierò con Putin che aveva attaccato la Georgia, quel Putin che è stato dichiarato da un tribunale inglese come mandante dell’omicidio Litvinenko. Ho lasciato Berlusconi per quei motivi. Oggi vedo che le opinioni di Berlusconi hanno vinto e che sono io in minoranza. Sono tutti per Putin, ci passano sopra, destra e sinistra, è una gara a chi è più putiniano. Ecco il voltagabbana: ho cambiato, o meglio, io sono rimasto dov’ero e le circostanze sono cambiate.
E invece il miglior giudizio che hanno dato di te?
Professionalmente quando un intervistato, dopo avere letto l’intervista che gli avevo fatto, mi diceva: «Non una sola parola di quello che lei ha scritto io ho pronunciato, ma nessuno era mai riuscito a esprimere in maniera così perfetta quello che penso». Perché credo che l’intervista non deve essere un verbale, non deve essere un’aggressione. Odio questo giornalismo, intendo di quelli che rincorrono con il microfono in mano e strillano e non ti lasciano rispondere.
Una concezione di giornalismo che oggi non è maggioritaria. Allora che mestiere è il giornalista?
Intanto il mestiere di giornalista non esiste. Perché è giornalista chi si occupa dell’ufficio stampa di una casa di moda, chi si occupa di Vaticano, il cronista di nera… Quindi boh! Il giornalista, diciamo meglio, il reporter – parola inglese e più fedele perché vuol dire: colui che riporta – il reporter è quello che va, prende ciò che non era noto e lo riporta come un cane da riporto. Io mi sono sempre sforzato, con pochi altri, di vedere, capire, tirar fuori qualcosa che sorprenda.
Perché se il giornalista dice ciò che tutti sanno e si aspettano, allora è un vigliacco. E questa codardia oggi prevale, perché ciò che fa la maggior parte dei giornalisti è dire ai propri lettori ciò che si aspettano di sentirsi dire. Io purtroppo sono fatto di quest’altra pasta, che non porta bene. Io sono un uomo povero, poverissimo, pieno di debiti: non ho avuto nessun successo commerciale, che ti devo dire? non l’ho inseguito, e quando me lo sono trovato davanti… tipo quando sono andato in televisione… bé, ti ho detto come è finita.
Ad agosto compi 77 anni. Se guardi avanti cosa vedi?
Vedo qualcosa se la salute regge, e finché reggerà. Sono stato misteriosamente male un anno fa, di una cosa sulla quale i medici non hanno saputo dire nulla, ma svenivo, sono proprio crollato. Poi con un’energica cura di antibiotici e cortisone sono tornato quello che ero. Ma in quel periodo avevo concluso mentalmente che forse ero arrivato alla fine della corsa, insomma 76 anni…
Speravamo di meglio, ma ahi ahi che voi fa? Siamo arrivati all’ultimo capitolo. E allora sono riuscito – lo dico con molto orgoglio e modestia – a sedare il terrore di morire, far pace con il fatto che si muore. Io non credo in nulla, non mi aspetto null’altro dopo la morte che una bara o un incenerimento. O come diceva mio padre, che pure era credente: «Buttatemi in una discarica, non me ne frega niente».
Insomma, quello che ti aspetti da te stesso?
Quello che mi aspetto da me stesso è che finalmente mi decida, alla tenera età di 76 anni, a cominciare a fare lo scrittore come si deve. Cosa verso la quale mi incita in maniera molto affettuosa e molto competente, perché mi ha sempre letto e segretamente spinto, mio figlio Corrado, il quale è, non so dire se un mio estimatore, ma certamente uno che leggeva delle cose, dei thriller che io scrivevo intorno ai 40 anni. Glieli infliggevo, ma lui li leggeva con molta diligenza e poi mi diceva: «Ma scusa, papà, tu devi fare un libro l’anno».
Quindi stai scrivendo?
Ho in mente, e a questo sto lavorando da molto, un libro sulle donne che vorrei intitolare… ma non si può, già so che non si può… perché il titolo giusto è L’invenzione della fica. Ti mandai anche un estratto qualche tempo fa.
Sì, credo di ricordare di cosa parla.
Di quello e di altro ancora. L’idea è che qualcuno ha inventato il piacere: perché il piacere è una cosa che se tu provi a spiegare senza usare la parola “piacere” non lo puoi dire. Il piacere è piacevole. E il dolore? Il dolore è doloroso. E quindi questi sono i due joystick, il bastone e la carota – non mi invento nulla di nuovo, eh – con cui noi veniamo governati come marionette, come Pinocchio. Quindi fica, schiaffi, schiaffi, fica, culo, cazzo, schiaffi, botte. Dalla nascita alla morte veniamo condotti in questo modo.
Allora la donna è l’oggetto più curioso e interessante: perché le donne cominciano adesso a conoscere se stesse, pur se ancora affogate nei luoghi comuni, per carità… Mentre invece l’orgasmo e la sessualità sono la chiave del mondo. Però il rischio è di cadere nel banale, nel femminile, nel femminista. Perché, intendiamoci, le donne possono essere infernali. Gli uomini possono essere violenti, assassini, stupratori, infami, schiavisti, tutto quello che si vuole. Ma la perfidia di cui le donne sono capaci, con e sulle altre donne, non ha uguali. Ecco, questo è ciò che vorrei scrivere. Almeno la prima parte. Dici che ce la farò?