ATENE INFINITE PENE – HOLLANDE E LA MERKEL NON HANNO UN VERO PIANO IN CASO DI VITTORIA DEL “NO” AL REFERENDUM DI ATENE – DRAGHI POTREBBE STACCARE LA SPINA ALLE BANCHE GRECHE MA SERVIRÀ UNA DECISIONE POLITICA E NON CI SONO PROCEDURE PRECISE PER L’USCITA DI UN PAESE DALLA MONETA UNICA


Andrea Bonanni per “la Repubblica

 

Ieri mattina il presidente Hollande ha telefonato ad Angela Merkel con un quesito a cui nessuno, al momento, è in grado di dare una risposta. Che cosa succede veramente se domenica i greci voteranno “no” al referendum? In questo caso, secondo il presidente francese, «si entra in una dimensione sconosciuta». Adesso che il “piano B” in caso di default di Atene è diventato “piano A”, quello che manca davvero è un “piano C” che definisca la strategia da seguire nell’ipotesi di uno Tsipras vittorioso, che si ripresenta a Bruxelles chiedendo di rinegoziare tutto da una posizione politicamente rafforzata.

MERKEL HOLLANDE

 

La possibilità è tutt’altro che remota, visto che i sondaggi fotografano un elettorato greco diviso praticamente a metà. E le cancellerie europee sono molto preoccupate.

 

«Molti affermano che non possiamo permetterci un’uscita della Grecia dall’euro. Altri sostengono che non possiamo permetterci di tenere Atene nella moneta unica alle sue condizioni. Di certo, quello che non possiamo permetterci è di farci sorprendere lunedì da un “ no” greco senza sapere che pesci pigliare», commenta sconsolato un alto funzionario europeo.

 

 In questa situazione di totale incertezza, sono parecchi quelli che segretamente sperano sia ancora una volta Draghi a togliere le castagne dal fuoco al posto dei politici. Se lunedì, a seguito di una vittoria dei “no”, il Consiglio direttivo della Bce dovesse decidere di chiudere l’Ela, il rubinetto di emergenza che tiene in vita le banche greche sia pure a sportelli chiusi, la sopravvivenza di Atene nell’euro diventerebbe questione di giorni più che di settimane.

 

selfie hollande merkel

Se poi il 20 luglio la Grecia non fosse in grado di rimborsare 3,5 miliardi che deve alla Banca centrale europea, Varoufakis dovrebbe affrettarsi a stampare dracme, anche se sostiene che il governo ha buttato via le matrici delle vecchie banconote. Ma è difficile credere che Draghi, questa volta, sia disposto a supplire alla latitanza della politica senza chiamare l’eurogruppo ad assumersi le proprie responsabilità.

 

Se domenica vincessero i “sì”, il percorso politico sarebbe abbastanza chiaro. Di fronte ad una richiesta di aiuto del popolo greco, e alle probabili dimissioni del governo Tsipras, l’Ue non avrebbe altra strada che quella di varare un nuovo programma di assistenza. Ma non sarebbe comunque una passeggiata.

 

MARIO DRAGHI IN AUDIZIONE ALLA CAMERA

 La crisi di questi giorni si è già mangiata tutte le prospettive di crescita economica per l’anno in corso e il Paese chiuderà il 2015 in forte recessione. Nel rapporto pubblicato ieri, il Fmi avverte che la Grecia avrà bisogno nuovi finanziamenti per 50 miliardi nei prossimi 3 anni, di cui almeno 36 da prestiti europei. Sarà necessario ristrutturare il debito pubblico, che rischia di arrivare al 200 per cento del Pil, allungando le scadenze almeno fino al 2040.

 

Se poi anche il nuovo governo frenasse sulle riforme, come ha fatto Tsipras finora, diventerebbe inevitabile un taglio netto del debito per una somma che potrebbe arrivare a 50 miliardi di euro. Dai palazzi di Francoforte, inoltre, fanno notare che l’incertezza politica seguita ad una vitoria dei “sì”, renderebbe difficile definire un nuovo programma di lungo periodo. Il probabile governo di transizione che prenderebbe il potere avrebbe vita breve. E alle elezioni potrebbe nuovamente vincere Tsipras e la linea anti-austerità: «Sarebbe come buttare i soldi dalla finestra», commenta un alto dirigente.

 

varoufakis e tsipras

Ma la prospettiva veramente da incubo si materializzerebbe con la vittoria dei “no”. «Il referendum è per scegliere tra l’euro e la dracma», ha sintetizzato Renzi. Questo, almeno, è il messaggio che tutti si sforzano di inviare all’opinione pubblica greca prima del voto. Un messaggio opposto a quello di Tsipras, secondo cui il “no” non implica l’abbandono della moneta unica ma rafforza solo la posizione negoziale del governo greco a Bruxelles.

 

In realtà entrambe le semplificazioni non rendono la complessità del problema. Innanzitutto l’Unione monetaria non prevede meccanismi per l’uscita di un Paese. Legalmente, l’unico modo per abbandonare l’euro sarebbe quello di uscire dall’Ue: un’ipotesi assolutamente impensabile per un Paese come la Grecia. Atene, poi, ha già fatto sapere che non ci sarà in ogni caso un divorzio consensuale, e si è detta pronta a ricorrere alla Corte di Giustizia per restare nella moneta unica ad ogni costo.

Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis

 

E’ vero che la Grecia potrebbe facilmente essere forzata a rinunciare all’euro e a battere una moneta parallela per poter pagare stipendi e pensioni. Ma il danno economico e di immagine che l’Europa ne riceverebbe sarebbe enorme. Atene potrebbe cancellare unilateralmente i 270 miliardi di debiti che ha contratto con Bce, Fmi e fondo salva stati e questa sarebbe una perdita netta per i contribuenti europei. Inoltre l’uscita di un Paese dall’unione monetaria potrebbe riaprire la guerra degli spread.

 

Nonostante il probabile intervento calmieratore della Bce, Standard e Poor’s ha calcolato che i Paesi più esposti pagherebbero 30 miliardi di maggiori interessi sui loro debiti pubblici, di cui 11 graverebbero sull’Italia. Ma, nella «dimensione sconosciuta » evocata da Hollande, nessuno può escludere che la mareggiata sui mercati si trasformi in tsunami capace di spezzare la coesione dell’euro.

 

GREXIT GRECIA EURO EURO CRAC ATENE TSIPRAS VAROUFAKIS

 E le insistenti pressioni di Obama per evitare un Grexit non sono fatte per tranquillizzare gli animi circa i rischi che incombono. D’altra parte tutti concordano che negoziare un nuovo programma di assistenza con uno Tsipras rafforzato da una vittoria dei “no” sarebbe quasi impossibile, ha detto ieri il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Ovvio. Intanto, però, il “piano C” continua a latitare.