BOCCASSINI, CI ‘FACCI’ IL FILIPPO PIACERE - RITRATTO AL CIANURO DI ILDA LA ROSSA CHE DI BOTTO HA SCOPERTO CHE “C'È STATO UN CATTIVO USO DELLE INTERCETTAZIONI DA PARTE DELLA MAGISTRATURA”, CHE “ANCHE IO LEGGENDO SUL GIORNALE DELLE COSE CHE NON DOVREI LEGGERE, M'INDIGNO”, CHE LE INTERCETTAZIONI TELEFONICHE SONO UNO STRUMENTO IMPORTANTE PER LA RICERCA DELLE PROVE”: DUNQUE NON “PROVE”…
Filippo Facci per "Libero"
L'altra sera, durante una serata a Pavia, Ilda Boccassini ha detto una quantità di cose sufficienti a far scuoiare vivo il berlusconiano che le avesse pronunciate al suo posto.
Ha detto, per cominciare, che «le intercettazioni telefoniche sono uno strumento importante per la ricerca delle prove»: dunque non «prove» - come oggi vengono impunemente chiamate - ma mezzi di ricerca della prova che neppure dovrebbero entrare negli atti e negli ordini d'arresto, e questo lo aggiungiamo noi: esattamente come le lettere anonime o le soffiate dei confidenti.
Ha detto, Ilda Boccassini, che «c'è stato un cattivo uso delle intercettazioni da parte della magistratura, ovvero da parte degli uffici del pubblico ministero a livello nazionale». E ancora: «Anche io, da cittadina, leggendo sul giornale delle cose che non dovrei leggere, m'indigno».
È stata lei a dirlo, è stata lei a legittimare ciò che noi tutti già sappiamo, è stata lei - e non un garantista da strapazzo - ad aggiungere che «nella conflittualità che c'è oggi nel nostro Paese, le conversazioni captate diventano uno strumento di lotta politica. Ma fin quando la conflittualità sarà così alta, non sarà possibile la serena autocritica di entrambe le parti».
Tutte uscite ineccepibili, cristalline, persino banali se il pulpito non fosse inaspettato. Che poi è inaspettato sino a un certo punto, visto che il procuratore aggiunto a capo della Dda di Milano - questa la sua carica - in definitiva resta un personaggio autonomo, aliena a interviste e ciarlerie giudiziarie.
Ecco, magari si potrebbe chiederle se fossero proprio tutte necessarie le 389 pagine di intercettazioni (più un supplemento di altre 227) che la sua Procura raccolse tra gli elementi d'indagine sul RubyGate, l'inchiesta per la quale Silvio Berlusconi è accusato di concussione e rapporti sessuali con una minorenne: tutto è finito sui giornali e sul web, compresi i numeri di cellulare delle persone intercettate.
Si potrebbe chiederlo a lei che alla privacy ci tiene, e che anche l'altra sera, a Pavia, ha chiesto che uscissero le telecamere perché sennò non incominciava a parlare. «Sono presuntuosa, non mi faccio condizionare dall'opinione pubblica e dai mass media, non me ne frega niente» si lasciò sfuggire nel marzo 1998.
Detesta apparire - come tutti i veri vanesi - e lascia a noi il complicato compito di classificarla a seconda delle circostanze: ora per il centrodestra è il demonio, è il mastino specializzato in scontri col premier o meglio coi suoi legali, eppure parliamo dello stesso centrodestra che pochi anni fa si sperticò di elogi per le sue qualità di investigatrice nell'inchiesta sulle nuove Brigate Rosse. E pensare che finì addirittura in un rapporto riservato dei Carabinieri (il 28 ottobre 1987) e fu sospesa da «magistrato di turno esterno» perché firmò un appello che definiva intollerabile la carcerazione di un esponente di Potere Operaio.
Nelle attenzioni del Ministero dell'Interno condivideva i destini di Francesco Greco, definito «di dubbia condotta morale e civile» per via del suo impegno nella rivista clandestina Mob, ricolma di esponenti della sinistra eversiva anche collegati con la colonna brigatista Walter Alasia: lo si apprende leggendo lo stesso rapporto dei Carabinieri.
È il periodo così descritto da un ex toga di sinistra, Francesco Misiani, nel suo libro «La Toga Rossa»: «Conoscevo Ilda Boccassini da quando era una ragazza: bella e dal carattere solare. Sicuramente una delle più belle donne magistrato che conoscessi a quei tempi. Ma, soprattutto, una donna dall'intelligenza vivace, con cui parlavamo un linguaggio comune».
Una passionale che avrà modo di apprezzare, parole sue, «quel senso di superficialità tutta napoletana che ti aiuta a vivere». Qualcosa che un altro napoletano come il procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli, però, apprezzava sino a un certo punto: «Esorto tutti a purificarsi da ogni indebito investimento emotivo e a prevenire ogni tracimazione dell'ormone sul neurone - scrisse in una lettera indirizzata al Pool antimafia in data 3 novembre 1990 - giacché distacco, scetticismo e autoironia sono segni di buona vocazione alla giustizia assai più delle spade fiammeggianti».
Da allora Ilda Boccassini cominciò a indurirsi. Dicono che non rida da diciannove anni, da quando morì l'intimo amico Giovanni Falcone, eppure un certo lutto dell'anima l'aveva come già presa ai la fumosa Duomo connection, inchiesta che affrontò già allora senza sorriso, con seriorissimi occhiali scuri, dura, insofferente, litigiosa con chiunque, carica di «incontenibile soggettivismo e passione, individualismo, non disponibilità al lavoro di gruppo» come disse di lei ancora Borrelli.
Per anni divenne una testimonial ormai prigioniera di se stessa e amatissima da chi condivideva una visione legalitaria dello Stato, per quanto lei restasse distante - questa la nostra opinione, almeno - da una giustizia da venerare come una fede salvifica o come un semplice mezzo per sbarazzarsi dell'avversario.
Assunse una postura da solitaria incompresa, fece appelli, mozioni d'ordine contro questa o quest'altra legge, contro la sacrosanta smobilitazione dei lager di Pianosa e dell'Asinara, contro l'umanizzazione del 41 bis, contro la riorganizzazione dei nuclei organizzati di investigazione, contro le riforme ipotizzate dalle commissioni bicamerali, contro Maria Concetta Riina figlia di Totò (colpevole di non aver rinnegato pubblicamente la figura del padre) e insomma divenne l'icona della trincea e della scorta, una vita d'inferno ma così pure inevitabilmente voluta.
Ogni tanto le scappa una frase inquietante, come quando su Repubblica, il 6 marzo 1998, disse che «sarei disposta a rinnegare i miei figli se dovessero fare cose che non condivido». Ma sappiamo, almeno, che le sue opinioni le appartengono. E la sua opinione, ora, è che ci sono troppe intercettazioni, che ne è stato fatto un cattivo uso, uno strumento di lotta politica. Legittimo o meno che sia il suo pulpito, la lasceranno sola ancora una volta. Ogni tanto le capita.