CERVELLI ORFINI - IL RINCULO DI MARINO FA FARE A MATTEO ORFINI LA FIGURA DEL POLLO - RENZI LO SCARICA: “DOVEVI CHIUDERLA PRIMA, TE L’AVEVO DETTO. ORA SIAMO NEI CASINI” - E LUI SE LA PRENDE CON I CONSIGLIERI PD: “IO POSSO ANCHE SALTARE MA QUI SALTIAMO TUTTI…”
Tommaso Ciriaco e Giovanna Vitale per “la Repubblica”
La porta dello studio di Matteo Orfini non è chiusa, semmai sprangata. Dentro boccheggiano diciannove consiglieri del Pd romano, fuori si consuma la crisi più lacerante dell’era Renzi. «Non usciamo da questa stanza — promette il presidente del partito — finché non mandiamo a casa Marino».
E invece alle 22, dopo sette interminabili ore, la compagnia abbandona stravolta largo del Nazareno senza lo scalpo del sindaco. Servono 25 eletti disposti a mollare il Campidoglio, sei in più dei democratici. La rincorsa diventa disperata, i sei dell’opposizione alzano il prezzo. I dimissionari, questo è l’accordo firmato sulla sabbia, dovrebbero presentarsi stamane al Comune per sancire l’addio. Dovrebbero, perché a sera il commissario chiama Matteo Renzi e ammette: «Ci siamo, ma solo se stanotte qualcuno non ci ripensa».
Montagne russe, appunto. Con il Partito democratico sull’orlo di una crisi di nervi.
Il fuso orario cubano disturba il premier, ma è nulla rispetto alla grana capitolina e alle continue telefonate di Orfini. «Devi chiudere questa storia, adesso», è il mandato di Palazzo Chigi. Assomiglia a un ordine, in realtà, perché il pasticcio di Roma ha scavato un solco tra i due: «Marino è un irresponsabile e sembra aver perso la testa. Ma tu — attacca il capo del governo — dovevi chiuderla prima, te l’avevo detto. Ora siamo nei casini».
In serata Orfini e il capogruppo Fabrizio Panecaldo in una dichiarazione congiunta ribadiscono che il percorso «chiaro e trasparente» è tracciato: «Domani Roma volta pagina». Si va alle dimissioni, «Roma non è proprietà privata» di Marino. «Spiace che lui abbia vanificato uno sforzo per individuare soluzioni che avessero al centro la città e non i destini personali».
L’obiettivo minimo è buttarsi alle spalle l’incubo e nominare al più presto (già oggi, se possibile) il commissario prefettizio che traghetti la città al voto. Circolano i nomi di Paola Basilone, Bruno Frattasi e Riccardo Carpino, con quest’ultimo in pole.
Questo è il dopo, il problema resta il presente. Per calare il sipario il presidente del Pd le tenta tutte. A metà pomeriggio propone la soluzione delle dimissioni di massa. «Meglio considerare lo scenario peggiore». Nessuno, però, si aspetta che il sindaco sparigli così presto. E invece alle 17 un consigliere mostra sull’iPhone l’ultimora più indigesta: “Marino ha ritirato le dimissioni”. Orfini barcolla: «E che vi devo dire...». Lascia la stanza, si attacca al cellulare. E compone il numero del premier.
Il capo del governo vuole tenersi alla larga dal pasticcio, però. Tocca a Orfini ballare. Rientra in stanza, azzanna alla giugulare i consiglieri in bilico. «Io posso anche saltare, ma qui saltiamo tutti. Non sono concesse defezioni». La questione non è tanto se dimettersi, ma assieme a chi. «Io con Alemanno non firmo», annuncia senza mezze misure il renziano Nanni. «Firmo anche con Belzebù, pur di mandare a casa Marino », ribatte Corsetti.
«Intanto assicuriamoci gli altri sei consiglieri», propone Orfini. Dalle 18 in poi la caccia diventa spietata. Si scandaglia il consiglio con l’obiettivo di trovare sei firme “potabili”: «Intesa con chiunque, purché non abbiano governato con Alemanno». Un eletto di Centro democratico dice subito sì. Venti consiglieri, dunque. Un altro della lista Marino pure, e sono ventuno. Cosimo Dinoi, del Misto, promette ma poi si sfila. L’alfaniano Cantiani invece accetta: ventidue.
L’ago della bilancia diventa Alfio Marchini, assieme al suo consigliere Alessandro Onorato. Il costruttore romano, in volo per Milano, prende tempo. Orfini lo pressa. «Forse non hai capito, io non so se domattina avrò ancora le mie diciannove firme. Dobbiamo andare in Comune anche stanotte». «Facciamo domattina alle sette», è la controproposta. Per tagliare il traguardo servono però altri due volenterosi: si valutano i due fittiani, che mai hanno governato con Alemanno.
La scossa del Nazareno fa traballare il partito. E chi oscilla paurosamente è proprio Orfini, investito dall’ira di Renzi e sottoposto al fuoco della minoranza interna. Qualcuno azzarda: è pronto alle dimissioni. Di certo è lui, secondo gli oppositori del renzismo, l’innesco per una tempesta perfetta. «Il tema non è Matteo — sostiene Nico Stumpo, bersaniano — ma l’assenza di un luogo in cui discutere. Marino è condannato? Possiamo almeno discutere se è giusta la pena di morte? Facciamo tante direzioni, convochiamone un’altra?».
L’opposizione interna fiuta l’odore del sangue. E mira a chi sta più in alto. «Tocca al premier metterci la faccia», sibila Alfredo D’Attorre. «Nessuno vuol fare sciacallaggio — riflette Davide Zoggia — ma il problema rischia di superare i confini della Capitale».
Le scorie di questo scontro intossicano anche gli scantinati del Campidoglio. E nessuno risparmia colpi a nessuno: «Chi attacca Orfini strumentalizza — si infuria il “turco” Francesco Verducci — Sono proprio quelli che hanno permesso al partito di Roma di farsi intaccare da Mafia capitale ». Eppure gli oppositori interni scorgono il varco e sono pronti a chiedere le dimissioni di Orfini dalla presidenza del partito. «Un momentaccio», per dirla con Francesco Rutelli.