CHI L’HA DETTO CHE IL POPULISMO E’ UN MALE? SENTITE COSA DICE STEVE HILTON, EX CONSULENTE DI DAVID CAMERON: “SE USATO BENE, EVITANDO OSTILITÀ PRECONCETTE VERSO I LAVORATORI STRANIERI E CON L'IMPEGNO A SRADICARE LA BUROCRAZIA CHE PRETENDE DI INCARNARE LO STATO PIÙ DEI GOVERNANTI ELETTI, IL POPULISMO PUÒ ESSERE IL MOTORE DI UN CAMBIAMENTO POSITIVO: UNA FORZA DAL BASSO CAPACE DI SCARDINARE UN SISTEMA NEL QUALE LE ÉLITE, ATTRAVERSO LE LORO LOBBY, SONO RIUSCITE A GARANTIRSI CONDIZIONI ECONOMICHE PRIVILEGIATE, LASCIANDO INDIETRO L'80 PER CENTO DELLA POPOLAZIONE"
-Massimo Gaggi per “la Lettura - Corriere della Sera”
Se usato bene, evitando ostilità preconcette nei confronti dei lavoratori stranieri e con un forte impegno a sradicare le incrostazioni di una burocrazia che pretende di incarnare lo Stato assai più dei governanti democraticamente eletti, il populismo può essere il motore di un cambiamento profondo e positivo: una forza dal basso capace di scardinare un sistema nel quale le élite, attraverso le loro lobby, sono riuscite a garantirsi condizioni economiche privilegiate, lasciando indietro l'80 per cento della popolazione.
Parola di Steve Hilton, originale figura di intellettuale creativo e consulente politico britannico che, dopo aver aiutato David Cameron a modernizzare l' immagine dei Tory inglesi, si è trasferito in California. Qui coltiva amicizie democratiche, soprattutto tra gli ambientalisti e la sinistra radical-populista di area Sanders, ma al tempo stesso arringa i conservatori Usa dal pulpito di The Next Revolution, la sua trasmissione sulla Fox: un conservatore pop senza fissa dimora (prima di lavorare per Cameron aveva rischiato di diventare consulente di Tony Blair) alla corte di Murdoch, padrone della tv di riferimento della destra americana.
Positive Populism, il saggio che ha appena pubblicato negli Stati Uniti (Crown Forum editore), molto dibattuto per via della visibilità del personaggio, si inserisce nel filone della cosidetta «grande correzione»: il tentativo degli studiosi, sorpresi dalle svolte degli ultimi due anni, di analizzare l'onda populista che ha portato alla vittoria elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e al vento nazionalista e sovranista che scuote l'Europa.
Ma, mentre nei numerosi studi pubblicati all' inizio dell' anno prevalevano giudizi sferzanti e previsioni fosche come quelle di The Death of Democracy dello storico Benjamin Carter Hett (Henry Holt editore), ora si è aperta una stagione di riflessioni più profonde, problematiche, ma anche meno pessimiste: da quelle di Hilton a Identity, il nuovo saggio di Francis Fukuyama (Farrar, Straus & Giroux).
Nel ripercorrere la via crucis della Germania, dalla repubblica di Weimar all' avvento del nazismo, Carter Hett è stato bene attento a evitare paragoni espliciti tra l' ascesa di Trump e quella del Terzo Reich.
Ma il lettore che prende per buona la sua narrazione chiuderà il libro con molti timori in più per le sorti della nostra democrazia proprio alla luce di alcuni sinistri parallelismi: l' ascesa di Hitler facilitata dalla modestia dei leader del tempo; la loro convinzione di poter sfruttare e controllare il movimento nazionalsocialista; l'incapacità del sistema politico di affrontare i problemi della globalizzazione. E, poi, il programma nazista del 1920: autarchia ed espulsione dei cittadini stranieri. C'è perfino Goebbels che invoca la costruzione di un muro protettivo attorno alla Germania.
Moniti analoghi si ritrovano in How Democracies Die (Crown editore) dei politologi Daniel Ziblatt e Steven Levitsky. Si parte dagli errori di sottovalutazione del nazismo commessi dal presidente Hindenburg, convinto di avere la situazione sotto controllo anche dopo il colpo di mano di Hitler che nel 1933 sfruttò il rogo del Reichstag per cambiare radicalmente la Costituzione, fino ad arrivare all'analisi degli infarti della democrazia di questo primo scorcio del XXI secolo, dal Venezuela all'Ungheria.
Demonizza il populismo anche William Galston, politologo della Brookings Institution, nel suo Anti-Pluralism, pubblicato all' inizio dell' anno da Yale University Press: come si evince dal titolo, l' ex consigliere della Casa Bianca di Bill Clinton vede in questo fenomeno che si sta diffondendo a macchia d' olio nelle democrazie un rifiuto del pluralismo e una spinta al protezionismo.
Ancora più duro Yascha Mounk in Popolo vs Democrazia, pubblicato ora in Italia da Feltrinelli. Per lui il populismo è quasi sinonimo di tirannide razzista. I populisti sono bugiardi con aspirazioni dittatoriali. E Trump non è un punto di svolta ma l'amplificazione, nella continuità, di un deterioramento cominciato con Reagan e la Thatcher negli anni Ottanta e proseguito con Bush ma anche coi leader progressisti Bill Clinton e Tony Blair.
Ebreo tedesco emigrato negli Usa, docente di Harvard assai giovane (ha 36 anni), Mounk gode di un certo credito per un saggio del 2016 sui suoi anni in Germania, Stanger in my Own Land («Straniero nel mio Paese»): un libro denso di allarmi che si sono rivelati fondati, alla luce delle onde sovraniste e xenofobe che si vanno diffondendo in Europa.
Cosa che non ha, però, impedito a un progressista critico come Thomas Frank (cominciò ad analizzare la perdita di consensi dei democratici e la prima ventata populista anti-establishment già nel 2004 col saggio What' s the Matter with Kansas?) di contestare la scelta di Mounk di trattare il populismo non solo come il demonio, ma anche come un fenomeno degli ultimi 40 anni: in realtà, il populismo americano ha radici ben più antiche, dai presidenti dell' Ottocento Thomas Jefferson ad Andrew Jackson, fino a Richard Nixon e a George Wallace negli anni Sessanta del secolo scorso.
Contestando chi oggi demonizza e sostenendo che il populismo (che a lui, comunque, non piace) è stato anche una positiva forza propulsiva nella nascita dell'Unione o con le riforme anti-establishment di Theodore Roosevelt - ai primi del Novecento spezzò i monopoli, regolamentò i mercati e varò una serie di interventi sociali e a tutela dell'ambiente - Frank ha, in un certo senso, aperto la strada ad analisi meno drastiche del populismo, purché rispettoso delle regole democratiche.
Per Fukuyama, ad esempio, la rivolta populista si inserisce nel quadro del deterioramento della democrazia che lo storico di Stanford analizza da anni e che, secondo lui, certifica il fallimento delle élite economiche, oltre che politiche: il crollo finanziario del 2008, detonatore di una crisi che covava da anni alimentata dal risentimento per l'aumento delle diseguaglianze, ma anche il malessere provocato dalla sensazione di una progressiva perdita di identità e di dignità legate non solo a fattori economici.
Qui pesano anche l’impatto sociale e culturale della globalizzazione e delle ondate migratorie. Fukuyama considera una sciagura la presidenza Trump, ma nel suo Identity sostiene che è illusorio pensare a una correzione dell' attuale trend populista se non si affrontano questi nodi.
Anche Hilton è preoccupato dalle tendenze antidemocratiche e dall'ostilità nei confronti degli immigrati, ma pensa che, depurato da questi fattori, il populismo può essere una forza positiva per smantellare una burocrazia che impedisce alla buona politica di funzionare (musica per le orecchie di Trump che si considera in lotta con il deep State) e per rifondare un capitalismo divenuto ormai oligarchico e prepotente fino al punto di usare le clausole di non concorrenza per impedire il trasferimento dei propri dipendenti in altre aziende anche quando il soggetto in questione non è uno scienziato o un ingegnere che conosce segreti aziendali, ma solo un lavapiatti o un cuoco che frigge hamburger dalla mattina alla sera.