CHIUDIAMO BARACK E BURATTINI - IL VOTO SU HILLARY E TRUMP E’ ANCHE UNA SENTENZA SULLA PRESIDENZA OBAMA - “L’UOMO DEI SOGNI” NON E’ RIUSCITO A CAMBIARE IL PAESE: L’AMERICA NON È MAI STATA TANTO DIVISA, FRA LE RAZZE, FRA I PIÙ ISTRUITI E I MENO SCOLARIZZATI, FRA CHI HA SEMPRE DI PIÙ E CHI SEMPRE DI MENO
Vittorio Zucconi per “la Repubblica”
IL “Lungo Addio” alla presidenza di Barack Hussein Obama è un tessuto di nostalgia e di sollievo, di paure e di rimpianti che legano e dividono la nazione che lui ha guidato per quasi otto anni, come dividono lui. Mancano ancora 85 giorni a quella mattina del 20 gennaio 2017 quando accoglierà sotto il portico della Casa Bianca la persona che “The People”, il popolo avrà scelto per succedergli, ma il giorno dell’addio reale è già domani.
E il giorno della sentenza politica sulla sua presidenza, quando le schede diranno se l’America ha accettato di prolungare il suo regno, in quella Hillary Clinton che ha designato come erede ideale o consumare finalmente in Donald Trump la vendetta che dal novembre del 2008 gli irriducibili e i boia chi molla della destra hanno covato e coltivato nell’odio contro di lui.
Molti anni e molte generazioni devono trascorrere per distillare il giudizio storico sui risultati di un presidenza e la misurazione dei dati economici, delle promesse mantenute o tradite, delle guerre o delle paci vinte è sempre una contabilità relativa ed effimera. Ma se lo è per tutti, lo è come mai prima d’ora per Barack Obama, per un uomo che non era stato eletto per le promesse fatte, ma per essere, lui, la promessa. La realizzazione del sogno di vedere finalmente l’America giudicare una persona “non dal colore della pelle, ma dalla qualità del suo carattere”.
Quella promessa, non soltanto di poter vincere, ma di dimostrare al proprio popolo e al mondo che un uomo e la sua famiglia vanno giudicati per le loro azioni e per niente altro, è stata mantenuta. Ma non compiuta. Ed è in questo sentimento di incompiutezza, di lavoro non finito, «di miglia ancora da percorrere prima di poter riposare», come Obama ha spesso detto parafrasando il poeta americano Walt Whitman, che sta lo struggimento del suo lungo addio.
Obama ha cambiato per sempre la storia della presidenza americana, aprendola a un uomo di sangue misto africano ed euroamericano, come domani notte una donna potrebbe finalmente infrangere la barriera di genere dopo quella di razza, ma non ha cambiato l’America. Ha spinto un poco più in alto sulla collina il macigno della assistenza sanitaria che ora rischia di franare, ha ereditato e non risolto guerre, ha aiutato un’economia che trovò devastata entrando nello Studio Ovale, ma ha fallito sulla speranza fondamentale di lasciare una nazione più unita di come l’aveva trovata.
L’America non è mai stata tanto divisa, secondo linee di frattura che non corrono soltanto fra le razze, ma fra i più istruiti e i meno scolarizzati, fra chi ha sempre di più e chi sempre di meno, fra chi vive di finanza e chi vivacchia di lavoro, fra Sud e Nord, fra le donne dei grandi sobborghi metropolitanti e le donne dei piccoli paesi. La sua presidenza, accompagnata da scosse di odio e da quelle promesse di “vendetta” che ora Donald Trump ha raccolto, ha rivelato più crepe nella terra americana di quante abbia sanato.
Mai nessun presidente in carica si è mai speso tanto e in prima persona come lui sta facendo in questi giorni per la campagna elettorale di un altro, in una disperata elegia di sè. Vola dalla Florida al Nevada, dall’Ohio alla Nord Carolina, dal New Hampshire al Michigan per ricucire quello che la lotta fra Clinton e Trump sta lacerando.
Rimbalza da Stato a Stato per salvare, in lei, se stesso, e quella promessa di riunificare l’America che fece a Chicago, poche ore dopo essere stato eletto, e che sente sfuggirgli fra le dita come le ore che mancano al suo addio. Non è Obama che può fare vincere Hillary. È Hillary che può completare, vincendo, la sinfonia incompiuta di un uomo che non ha più il tempo per cambiare niente.