PER TORNARE ALLA CASA BIANCA, BIDEN DEVE FERMARE LE GUERRE: IL PRESIDENTE AMERICANO VUOLE UN CESSATE IL FUOCO A GAZA ENTRO AGOSTO - LA TREGUA IN MEDIORIENTE PUÒ VALERE IL 4% ALLE ELEZIONI DI NOVEMBRE. ANCORA PIÙ DECISIVA (IL 5%) SAREBBE LA FINE DELLE OSTILITÀ IN UCRAINA MA PUTIN TRACCHEGGIA, A MARZO SI VOTA IN RUSSIA E TEME IL MALUMORE CREATO DALLE SANZIONI: NON VUOLE FARE UN REGALO A “SLEEPY JOE”, E TIFA PER IL RITORNO DELL’ISOLAZIONISTA TRUMP - USA E UNIONE EUROPEA VOGLIONO COSTRINGERE PUTIN A TRATTARE CONTINUANDO, TRA MILLE DIFFICOLTA', A FINANZIARE KIEV - L'IMPASSE DEGLI STATI UNITI DI CONTINUARE A FARE, COME UNA VOLTA, I GENDARMI DEL MONDO E' CAUSATO DALLA GLOBALIZZAZIONE: EX PAESI STRACCIONI ORA ALZANO LA CRESTA, VOGLIONO ESSERE COMPETIVI E NON ACCETTANO PIU' LA SUPREMAZIA MILITARE, ECONOMICA E POLITICA DELL'OCCIDENTE
DAGOREPORT
A Washington hanno deciso: prima di agosto 2024 si dovrà arrivare alla pace in Medioriente. Gli sherpa sono al lavoro per trattare la liberazione degli ostaggi, per spingere sulla soluzione dei “due popoli, due stati”, eccetera.
Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken si muove come una trottola in tutta l’area per cucire un dialogo tra tutti i Paesi interessati. Quello iniziato ieri è un tour che toccherà Israele, la West bank palestinese, l’Egitto, l’Arabia Saudita e il Qatar.
Ad agevolare la missione diplomatica voluta da Joe Biden c’è l’insofferenza dei paesi arabi che, abituati agli affari più che alle guerre, non ne possono più di un conflitto alle porte di casa, che li coinvolge più di quanto vorrebbero.
Neanche in Cina vivono con serenità la guerra a Gaza, visto che il rallentamento dei commerci a causa del blocco del Mar Rosso colpisce lo spostamento delle merci da e verso l’Europa, creando un danno soprattutto all’economia cinese.
In questo contesto, le pressioni su Netanyahu per arrivare almeno a un cessate il fuoco diventeranno sempre più forti nei prossimi mesi, anche perché alla Casa Bianca hanno compreso, grazie a sondaggi riservati, che arrivare alla pace in Medioriente può valere per Joe Biden 4 punti percentuali alle elezioni di Novembre.
Ben diverso è il caso dell’Ucraina. Non si intravede finora uno spiraglio per arrivare a una tregua e appare improbabile un tavolo dei negoziati a cui far sedere contemporaneamente Zelensky, Putin e in mezzo una folla di leader mondiali, dagli Stati Uniti alla Cina fino all'Europa, che, dallo scoppio del conflitto, hanno preso posizioni molto nette per l’uno o per l’altro contendente.
A tenere in stallo la soluzione del conflitto in Ucraina è anche l’imminente voto presidenziale in Russia. Che vinca Putin non è in discussione. Il punto è come vincerà: con il 90% dei consensi o con il 70%? E quale sarà la partecipazione al voto e quanti gli astenuti? Lo zar di Mosca ha bisogno di "vincere bene" per sentirsi pienamente e nuovamente legittimato, visto che i malumori in patria aumentano.
La Russia è arrivata ai minimi termini perché gli effetti delle sanzioni occidentali si sentono a lungo termine, e ora iniziano a farsi sentire sul comparto produttivo e sulla popolazione.
Mancano i pezzi di ricambio per l'industria civile, le metropolitane hanno problemi, e tutta la tecnologia “occidentale” è inaccessibile a Mosca. La gran parte delle persone, pur convinte a colpi di nazionalismo dell’operazione militare speciale, inizia a sentirne igli effetti nefasti sulla propria vita quotidiana.
Putin non vuole dare una soddisfazione a Joe Biden e sedersi a un tavolo di pace prima delle elezioni presidenziali americane: sarebbe un enorme regalo a “Sleepy Joe”, che potrebbe capitalizzare la pace alle urne (togliere dalle palle al mondo la guerra in Ucraina può valere il 5% dei consensi, più del conflitto a Gaza).
Putin ha tutto l’interesse a “traccheggiare” perché è convinto che una vittoria di Donald Trump lo rafforzerebbe: le tentazioni isolazioniste dei repubblicani americani potrebbero lasciare praterie alle ambizioni egemoniche di Mosca in Europa e altrove. Da qui l’intransigenza del Cremlino a trascinare la guerra nonostante un sostanziale stallo sul campo, che si protrae ormai da mesi.
Per far capire a Putin che non può vincere, l’Occidente sta mostrando la sua arma migliore: il cash.
Europa e Stati Uniti saranno anche “stanchi” del conflitto, ma continuano a riempire le casse dell’Ucraina alla faccia dei mugugni di Orban e della ritrosia dei repubblicani vicini a Trump.
I 50 miliardi di aiuti umanitari appena approvati dal Consiglio europeo, e il pacchetto in discussione al Congresso Usa sono due segnali chiari e inequivocabili per “Mad Vlad”: ti conviene sedere al tavolo delle trattative perché noi non molleremo Kiev al suo destino. Funzionerà? Non è dato saperlo.
Quel che è certo è stiamo assistendo a un enorme cambio di paradigma rispetto al '900, quando il gendarme americano poteva intervenire efficacemente sullo scacchiere internazionale, orientando le scelte di leader amici e nemici.
Lo strapotere di Washington, a cui abbiamo assistito, dopo la vittoria nella "Guerra fredda", è stato via via rosicchiato dagli effetti politici imprevisti della globalizzazione.
Paesi del terzo mondo, una volta tirati fuori dalla povertà e diventati competitivi, non accettano più il vecchio modello geopolitico basato sul primato e la supremazia dell’Occidente, "culla della civiltà". E chi non ha la forza (come Cina, India e Russia) di sfidare apertamente l’egemonia dell’Occidente, gioca su due tavoli: da un lato dialoga e fa affari con Europa e Stati Uniti, dall’altro finanzia (o ha finanziato) il terrorismo. Perfetti esempi di questo scherma? Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e Iran.
La nascita dei Brics, divenuti ora Brics+, dimostra quanto la crescita economica di questi Paesi sia stata accompagnata da una crescente ambizione politica, in alcuni casi egemonica, come dimostrano i casi della Cina nel Pacifico e dell’Arabia Saudita nel Golfo.
Come ha motteggiato il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov al forum di Doha del dicembre scorso, “Il mondo multipolare sta emergendo dopo 500 anni di dominio occidentale".
2. IL RITORNO DI BLINKEN (CONTESTATO A CASA): L’AMERICA ACCELERA PER SBLOCCARE LO STALLO
Estratto dell’articolo di Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
A Washington ha lasciato la sua casa in un quartiere tranquillo, ormai assediata in permanenza da un centinaio di manifestanti filopalestinesi della campagna «Occupy Blinken» [...]
In Israele Anthony Blinken trova un negoziato per gli ostaggi e una tregua umanitaria in stallo, un Netanyahu sempre arcigno e un ministro di estrema destra, il titolare della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che, addirittura, prende a schiaffi il principale alleato dello Stato ebraico, Joe Biden.
Il presidente Usa è contestatissimo in America e deve fronteggiare la rivolta di mezzo partito democratico per il sostegno che continua a dare a Israele, ma Ben-Gvir lo accusa di indebolire la lotta contro i terroristi con la sua richiesta di aiuti umanitari ai palestinesi (secondo lui finirebbe tutto ad Hamas).
E conclude: le cose per Israele andrebbero molto meglio se alla Casa Bianca ci fosse Trump. Più che le contestazioni, [...] Blinken soffre gli scarsi risultati dell’instancabile lavoro diplomatico di tessitura per arrivare a una tregua, alla liberazione degli ostaggi israeliani o anche solo per ottenere più aiuti umanitari ai palestinesi di Gaza e attacchi meno devastanti nei quartieri abitati da civili.
Quella che il capo della diplomazia Usa ha iniziato ieri attraverso Israele, la West Bank palestinese, l’Egitto, l’Arabia Saudita e il Qatar è la quinta missione in Medio Oriente dai massacri di Hamas del 7 ottobre scorso. Le prospettive non sono rosee nemmeno stavolta, ma è importate tenere aperto il canale diplomatico [...].
[...] L’ipotesi di tregua definita con la mediazione di Egitto e Qatar e dopo gli incontri a Parigi dei capi dei servizi segreti Usa e dei capi dei servizi segreti americani, israeliani e arabi, non decolla. Parlando ieri agli studenti dell’Università di Baltimora, il ministro degli Esteri del Qatar ha detto che potrebbe volerci ancora qualche settimana. Intanto è importate aiutare la popolazione civile e tenere aperti i canali, come Blinken sta facendo con i sauditi, che venerdì gli hanno confermato la disponibilità a riprendere il dialogo con Israele, appena possibile.
3. E BEN-GVIR, IL MINISTRO ARMATO, INVOCA TRUMP
Estratto dell’articolo di D. F. per il “Corriere della Sera”
L’«agente» sotto copertura porta la barba e la parrucca finte, il cappellino di lana a mascherare ancora di più l’identità. Soprattutto ha lasciato a casa gli occhiali con la montatura di metallo, la giacca scura e la cravatta che indossa di solito. Ai poliziotti del commissariato di Jaffa si presenta come un cittadino che deve sporgere denuncia, straparla per 20 minuti, solo alla fine scolla il travestimento e rivela di essere il ministro per la Sicurezza nazionale. Non proprio il loro capo, di sicuro il capo del loro capo.
La mascherata di Itamar Ben-Gvir è piaciuta poco agli ufficiali: il suo è un ruolo di coordinamento, non sta a lui testare le capacità e la prontezza della polizia, come ha giustificato il portavoce del politico. [...]
Ben-Gvir spara anche proclami, sa quando farlo, di solito al momento meno opportuno, se il tentativo è mettere in difficoltà il premier. Così nel giorno in cui Antony Blinken, il segretario di Stato americano, arriva in Medio Oriente, sul Wall Street Journal esce un’intervista che il ministro usa per lanciare messaggi al capo del governo: «È a un incrocio, deve decidere in quale direzione andare».
Per i coloni radicali messianici, che Ben-Gvir rappresenta, tirare dritto nella guerra a Gaza fino alla ricostruzione degli insediamenti. L’opposto della strada indicata dal presidente Joe Biden al quale il ministro non riconosce il sostegno quasi incondizionato garantito a Israele dopo i massacri del 7 ottobre nel sud del Paese: «È occupato a fornire aiuti umanitari che finiscono ad Hamas. Se Trump fosse al comando, la condotta degli Stati Uniti sarebbe completamente diversa». [...]