DIFFICILE AVERE FEDE IN BONAFEDE - GILETTI: ''PERCHÉ IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA NON HA PRESO LE DISTANZE DALLE PAROLE DEL BOSS GRAVIANO, 'GILETTI NON DEVE ROMPERE LE PALLE AL MINISTRO, BISOGNA LASCIARLO LAVORARE'? - MI SONO CONVINTO CHE LE RIVOLTE NELLE CARCERI SIANO STATE PLACATE CON UNA TRATTATIVA TRA STATO E CRIMINALI. E POI LA SCARCERAZIONE DEI BOSS… - SE AVESSI AVUTO PIÙ COLLEGHI CHE SI OCCUPAVANO DI QUESTO CASO OGGI NON SAREI SOTTO SCORTA''
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Luca Telese per ''la Verità''
Massimo: sei finito sotto scorta, e oggi continui a chiedere una dichiarazione ad Alfonso Bonafede. Quale?
«C' è uno strano filo che unisce me e lui in questa storia».
Quale?
«Il boss Graviano che ha minacciato e insultato me, ha detto che "non dobbiamo rompere le palle al ministro". Che bisogna "lasciarlo lavorare"».
Sono bruttissime parole, ovviamente. Ma si potrebbe obiettare: Bonafede non ha colpe per le parole di Graviano.
«Non è responsabile, ovviamente, ma sono rimasto stupito, quando si diffuse la notizia, che Bonafede non abbia sentito il bisogno di dire: "Mi sento infamato, non ho nulla a che vedere questo signore"».
«Doveva» farlo?
«Certo, pubblicamente: non ha mai risposto, invece.
Prendere le distanze, nella sua condizione, non è una possibilità: è un dovere».
Lo hai chiesto in tv.
«E lui non lo ha fatto. Né allora, né mai più. A me sembra una cosa grave. Perché Bonafede in questo momento rappresenta il governo, lo Stato».
Spiegalo.
«Come devo interpretare questo silenzio, non dico io Giletti, ma io cittadino?».
Tu dici: se questo silenzio perdura Bonafede si deve dimettere. Ma Bonafede si dice infamato solo dal sospetto di essere associato a dei mafiosi.
«E allora parli».
Massimo Giletti non molla.
Finito sotto scorta dopo le minacce di Graviano, spiega da dove è partita la sua battaglia antimafia, e da dove la farà ripartire appena l' Arena riparte.
Le minacce e la scorta ti arrivano dopo due anni di trasmissioni antimafia, molto fuori dalla ritualità dell' Antimafia.
«È vero, ma lo considero un complimento, non una critica».
Spiegati.
«Sono partito dal caso delle sorelle Napoli, una storia apparentemente laterale, se non addirittura marginale».
Cosa ti ha spinto a dedicare loro 18 puntate, una intera stagione e un libro?
«Io non sono mai ideologico.
Seguo il mio istinto e mi faccio sedurre dalla forza delle storie».
Cosa che ti ha colpito nel caso delle sorelle Napoli?
«C' era la solitudine di tre donne che lottavano da sole contro la mafia».
E nessuno credeva loro.
«Ma figurarsi: dicevano che erano matte, sconsiderate e mitomani».
E invece tu ci vedevi qualcos' altro.
«Il coraggio: tre donne apparentemente fragili, ma in realtà molto forti, che tengono testa ad un intero mondo».
Non è il racconto tipo dell' Antimafia epica.
«Dicevano che fosse solo una storia di quattro mucche uccise e tre vacche fatte fuggire, roba di recinti spezzati. E invece, andando oltre la verità apparente, si scopriva molto di più».
Minacce, attentati per intimidire i testimoni. Hai persino regalato una Panda fatta saltare per aria a un testimone.
«Non voglio dare enfasi a questo gesto. Era una cosa che per me andava fatta, punto. È più importante ciò che abbiamo scoperto».
Ovvero che la piccola storia si incrociava con una storia più grande.
«Sembrava solo una vicenda di mafia territoriale. E invece quel territorio era importante, perché era stato terreno di latitanza di Bernardo Provenzano».
Sei andato lì, a fare il programma in piazza, portando l' Arena in trasferta.
«Il sindaco mi aveva sfidato: "Vedremo se avrà il coraggio di venire qui". Non doveva farlo».
Su La Repubblica, Francesco Merlo ha scritto di te: «La piazza di Giletti è la bella sorpresa del giornalismo tv, e la mafia se n' è accorta».
«È un' analisi che mi fa piacere. Sono affezionato a quella puntata, alcuni mi hanno anche contestato in piazza, e io sono sceso in mezzo a loro per dialogare».
Hai rimproverato al sindaco di essere andato ai funerali dei mafiosi.
«Era il minimo che potessi fare».
Ha cambiato qualcosa quella campagna?
(Sorriso). «Per le Napoli tutto».
Perché?
«Da quel giorno le sorelle hanno smesso di essere considerate delle matte e sono diventate dei simboli».
Il racconto è tutto.
«Ma da solo non basta. Per questo dico grazie al prefetto di Palermo, e ai due ministri di due governi diversi, Matteo Salvini e Luciana Lamorgese, che hanno mandato un messaggio chiaro: lo Stato stavolta c' era».
Poi l' Arena ha trovato una nuova battaglia, la guerra al Dap, alle follie burocratiche per cui uscivano i boss.
«Io inizio sempre dai fatti. Siamo partiti dalla scarcerazione di Pasquale Zagaria, che era totalmente oscurata dall' informazione Covid».
La scommessa è stata accendere un riflettore su quello scandalo burocratico-amministrativo.
«Avevo in mano materiale sconvolgente, carteggi, direttive. E ho detto: andiamo in battaglia. Il gruppo di lavoro mi ha seguito con entusiasmo».
Lo dici come se fosse stata una sfida impossibile.
«Puoi vincere solo con un gruppo molto coeso. Ho chiesto a tutti loro un impegno folle: di notte, tardi, senza orario.Mi spiace, ma è servito».
La caccia ai latitanti ha avuto il primo effetto di bloccare le scarcerazioni.
«È stata una bella lezione: abbiamo il potere di cambiare la storia».
Quella puntata ha fatto di più: ha prodotto un intervento-choc del direttore del Dap, Francesco Basentini, e le sue dimissioni.
«Abbiamo dimostrato che aveva fatto un errore clamoroso. Non con un teorema, ma con le carte».
Fino a quel momento sembrava solo un pasticcio.
«Ho mostrato le mail, il carteggio Dap-magistrati».
E siete riusciti a fare ordine.
«Non erano i magistrati della sorveglianza, non era il dottor De Vito, a mettere fuori Zagaria, ma l' atteggiamento del Dap».
Che, più volte interrogato su dove sistemare il boss, non rispondeva.
«Gli orari delle mail erano una prova lampante e clamorosa, li abbiamo illustrati in sequenza. Alle 11.00 del mattino i magistrati avevano deciso».
E il Dap a che ora aveva risposto?
«Alle 17.38 con una mail interlocutoria! E per giunta girata all' indirizzo sbagliato... Ma si può?».
Qui Bonafede si è arrabbiato.
«È semplice: queste responsabilità sono del ministro. Come sua era la responsabilità di aver proposto un incarico importante a Di Matteo e poi di non averglielo garantito».
«Anche su questo punto non ha mai spiegato nulla».
Ha parlato in Aula.
«Sì, ma non ha offerto una ricostruzione che spieghi quello cosa è accaduto davvero».
E tu ti sei fatto una idea ben precisa, invece.
«Credo che le rivolte nelle carceri siano state placate con una trattativa».
«Trattativa» è diventata una parola contundente: quale intendi?
«Quella che ha portato alle circolari del Dap, e alle scelte per cui 200 detenuti dell' alta sicurezza e 4 addirittura del 41 bis, sono tornati a casa».
Siete andati a cercarli uno a uno con i pezzi sconvolgenti di Danilo Lupo, dai paesini della Sicilia.
«Era il minimo. Detto questo, a livello istituzionale nessuno ha spiegato una rivolta che si è sviluppata in contemporanea in tutta Italia, in molte carceri».
Non credi a una coincidenza.
«Al contrario: sono certo che nulla potesse essere casuale».
Che altro?
«Abbiamo scoperto e raccontato che in 14 carceri i detenuti dell' alta sicurezza non rientrano più in cella durante il giorno».
Quindi?
«È come dire che le limitazioni non esistevano più. Troppe cose strane».
Tutte denunce che hai fatto in trasmissione, settimana dopo settimana.
«Mi ha querelato chiedendomi un patrimonio. Ma se non ci fosse stata questa trasmissione sarebbero ancora tutti in libertà o ai domiciliari».
Immaginavi in quel momento che questo ti avrebbe portato alle minacce e alla scorta?
«Sapevo che chi rompe uno schema rischia. Che chi crea un movimento di opinione disturba. Quel boss, insultandomi mi ha fatto un complimento».
Quante puntate hai dedicato alle scarcerazioni?
«Dieci. Ma ne farò altrettante, se fosse necessario. Aspetto risposte».
Cosa pensi davvero di Bonafede?
«In un Paese straniero si sarebbe già dovuto dimettere. Non solo per la circolare Covid, ma per gli uomini che ha scelto, e che si sono tutti dimessi».
Era un altro dei tuoi tormentoni: l' organigramma sullo schermo dell' Arena.
«Dal capo gabinetto a Fulvio Baldi, al capo degli ispettori Andrea Nocera, al capo del Dap Basentini. Tutti a casa. E chi li ha voluti?».
Come è nata l' idea di fare quell' appello in diretta?
«Per arrivare al grande pubblico devi raccontare i fatti e rendere comprensibili le cose».
Cosa pensi della vicenda «Furbetti del Covid»? Vedi una regia?
«No. Ma ci dobbiamo fare una domanda inversa rispetta a quella scontata sui diretti interessati».
E quale?
«Come vengono reclutati oggi i politici?».
Sei colpevolista con chi ha sbagliato?
«Che un parlamentare prenda i 600 euro per me è inaccettabile».
E poi?
«Colpisce che tanti casi coinvolgano Lega e 5 stelle.
Una nemesi».
Perché?
«Non erano le forze "del cambiamento"? Oggi il mio primo dubbio, e lo vedi nella vicenda Dap, è come si recluta chi governa il Paese».
Il paradosso qual è?
«L' antipolitica ha conseguenze peggiori della politica che criticava».
Cosa si deve fare con i responsabili?
«Questi vanno allontanati dal Parlamento».
Cosa ti aspetti per settembre?
«Ho una certezza: Bonafede verrà alla prima puntata. Sarebbe un gesto importante».
Come? Chiedi le sue dimissioni e poi lo inviti?
«Ho il massimo rispetto per chi ci mette la faccia. Chiedo le dimissioni se non si spiega».
È uno strumento di pressione forte.
«Invitare uno di cui si chiedono le dimissioni per me è un esercizio di democrazia. Puoi anche non venire da me. Ma devi rispondere».
Come stai vivendo il vincolo della scorta?
«Le sensazioni personali contano poco».
Non ti piangi addosso.
«Non parlo della mia condizione. Ma dico una cosa sul contesto».
Quale?
«Questa scorta è figlia della solitudine».
Spiegati.
«Se avessi avuto più colleghi che si occupavano di questo caso oggi non sarei un obiettivo».
Perché obiettivi di diventa.
«Esatto. Sono rimasto solo, sono diventato un obiettivo e quindi oggi devo essere scortato».