OSANNATO PER MESI COME IL SALVATORE DELLA PATRIA, MARIO DRAGHI SI È GONFIATO DI EGOLATRIA COME UNA MONGOLFIERA. QUANDO HA AVUTO IL BISOGNO DEL CONSENSO DEI PARTITI PER SALIRE AL COLLE, HA PAGATO LA SUA ARROGANZA CON IL VAFFA CORALE DI SALVINI, BERLUSCONI, CONTE, FRANCESCHINI. OGGI L’EX UOMO DELLA PROVVIDENZA PIGOLA: CHIUNQUE VERRÀ ELETTO AL QUIRINALE, NON DARÒ LE DIMISSIONI – “PUÒ ANCHE DARSI CHE RESTI PER QUALCHE SETTIMANA MA AL PRIMO INCIDENTE, ALLA PRIMA RISSA, È CHIARO CHE SE NE ANDRÀ”
Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera”
Lo stato d’animo con cui Mario Draghi è entrato nella «lunga notte» dell’accordo sul suo nome, o contro il suo nome, sta tutto nelle parole di Giancarlo Giorgetti, uno dei principali sponsor del «trasloco» del premier al Quirinale: «Draghi? Dicono che nessuno lo vota, se nessuno lo vuole votare allora mi pare difficile che diventi presidente...».
Il destino istituzionale del capo del governo sta appeso a una congiunzione. Se Conte toglie il veto. Se Berlusconi si convince. Se Salvini smette di inviare messaggi ambigui. Se dentro il Pd vince Letta e perde Franceschini.
Osannato fino a poche settimane fa come il salvatore della Patria, o quasi, Draghi è finito prigioniero delle contorsioni dei partiti.
E adesso, costretto ad assistere dalla panchina a un derby che non può giocare, teme per il futuro del governo e del Paese. Ma se pure in cuor suo si sentisse sconfessato dalla sua «squadra» e non vedesse l’ora di abbandonare il campo, a frenarlo sarebbe la fedeltà alla Costituzione di un «nonno al servizio delle istituzioni».
Chiunque verrà eletto al Quirinale, Draghi non darà le dimissioni. «Non c’è niente di più falso», ha ripetuto a chi lo ha chiamato in queste ore impietose, in cui ha assistito sgomento alle rose sfiorite e alle carte coperte, al gioco dei veti e degli specchi, ai tentativi di spallata e ai repentini dietrofront.
Giornata folle, sintetizzata dal gemito di Enrico Letta alle dieci della sera: «È tutto per aria e non per colpa nostra».
Ma seppure il Parlamento dovesse scegliere Pier Ferdinando Casini, Elisabetta Belloni o qualsiasi altro presidente super partes, Draghi continuerà il lavoro alla guida dell’esecutivo.
Il «prendo e me ne vado» in piena emergenza non è nelle sue corde. Come è destituita di fondamento, assicurano fonti di governo, l’indiscrezione secondo la quale il premier intenda «condizionare la sua permanenza a Palazzo Chigi al nome del presidente che sarà eletto dal Parlamento».
Non ci sarà insomma alcun giudizio sul profilo del nuovo capo dello Stato. Se i partiti lo confermeranno, Draghi resterà al suo posto. Eppure, chi conosce la logica impietosa della politica sa che la non-elezione di un premier che di fatto è in corsa, pur non avendo ufficialmente annunciato la discesa in campo, sa di sfiducia e peserà sul governo.
«Può anche darsi che Draghi resti per qualche settimana — è la lettura di un ministro — ma al primo incidente, alla prima rissa nella maggioranza, è chiaro che Draghi se ne andrà».
La trattativa sul governo del «dopo di lui» non è stata ieri al centro dei colloqui del premier.
Draghi ha parlato con tutti i leader, a cominciare da Letta, ha avuto uno scambio telefonico (piuttosto formale) con Casini, ma per il secondo giorno consecutivo lo staff di Chigi ha tenuto massimo riserbo su ogni contatto, perché il capo del governo vuole evitare «interpretazioni e strumentalizzazioni».
Il nome di Draghi rimbalza per tutta la notte, entra ed esce da una terna che lo vede in finale con Casini e poi (anche) con la direttrice del Dis, Belloni. Resta come estremo approdo del possibile naufragio il Mattarella bis, soluzione a cui a Chigi si guarda con sincera speranza, prima del si-salvi-chi-può. Salvini, Berlusconi, Conte.
Sono tutti contro e se pure si dovesse arrivare a Draghi, sarebbe solo per il terrore del baratro. Il leader del M5S, che controlla almeno 60 grandi elettori, non perdona al premier di averlo sostituito al governo e poi di essersi «affidato alle seconde file, Giorgetti e Di Maio», invece di costruire un rapporto con lui.
Ma il corpaccione del Movimento è spaccato in tre pezzi. I contiani, ferocemente anti-draghiani.
I seguaci del ministro degli Esteri, che si è speso per Draghi e ha una presa forte sui gruppi: c’è chi parla di un centinaio di grandi elettori.
Poi c’è una pattuglia con poche speranze di essere rieletti, che vedono nel premier l’unica scialuppa che li può condurre a fine legislatura.
«La forza di Draghi è che con lui al Colle il governo andrebbe in fondo», ha provato a spiegare a molti colleghi di schieramento il dem Enrico Borghi. Finché, nella notte, a Letta è scappata una frase da ultimo giapponese: «Dobbiamo fare di tutto per evitare di perdere Draghi... Siamo stati abbastanza soli in questo tentativo».