DUE SPAGNE – SANGUE SUL REFERENDUM IN CATALOGNA: TRIONFA IL SI’: “ORA L’INDIPENDENZA” - IL PREMIER RAJOY: "UNA FARSA" - IL VOTO MARCHIATO DALLA VIOLENZA DELLA POLIZIA, CHE INTERVIENE SU ORDINE DI MADRID: OLTRE 840 FERITI – IL BARCELLONA A PORTE CHIUSE, L’INDIPENDENTISTA PIQUE’ PIANGE, ATTACCA RAJOY E DICE DI ESSERE PRONTO A LASCIARE LA NAZIONALE – VIDEO
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Francesco Olivo per la Stampa
Sono le undici di sera quando il governo della Generalitat varca il confine: «Benvenuti nella Repubblica catalana». Finisce così, con un nuovo pericoloso inizio, l' eterna giornata della ribellione anti spagnola. In una terra che non disdegna l' epica, nessuno immaginava che così tante cose potessero succedere in 24 ore: i seggi presidiati di notte, le schede che arrivano all' alba, poi l' incubo delle irruzioni della polizia e infine uno scrutinio scontato, ma con conseguenze inimmaginabili.
L' aria che tira la coglie il cameriere di un hotel della Gran Via che indica le otto camionette con gli anti sommossa pronti a colpire: «Ecco, con la Spagna oggi abbiamo chiuso».
Per la secessione c' è anche la data: «Mercoledì porteremo in parlamento i risultati di questo referendum: abbiamo diritto a un nostro Stato» dice il capo della Generalitat Carles Puigdemont. Una road map che spaventa Madrid, pronta a togliere l' autonomia alla regione. È solo l' inizio della rivolta: per protesta chiudono i teatri e si proclama lo sciopero generale. Gli indipendentisti hanno le foto che cercavano: «Madrid ci opprime» dicono al mondo tra lo sconcerto generale nel resto di Spagna.
Le scene del primo ottobre catalano sono forti e inedite in «una grande democrazia», come la chiama a sera il premier spagnolo Mariano Rajoy che qualifica «farsa», il voto. Ma due ore dopo, i risultati arrivano: ha vinto il Sì con una percentuale attorno all' 88%, in tre milioni, secondo il governo catalano, hanno provato a partecipare. I dubbi sui risultati sono legittimi (le irregolarità ci sono state), ma sulla Spagna, più che queste schede precarie, pesa il bilancio terribile dei feriti: oltre 844 di cui 8 gravi. Il sangue sul volto di persone anziane e i colpi gratuiti allontanano un altro po' tanti catalani dal resto della penisola: «Ci hanno voluto umiliare».
Oltre ottanta anni dopo la guerra civile spagnola, Barcellona si sente assediata e non è una metafora. Non c' è Franco ovviamente, ma viene evocato lo slogan fascista: «Per mare, per terra e per aria». Dalle navi in porto sbarcano i poliziotti impiegati nella repressione del referendum illegale. Dalle strade arrivano altri rinforzi. E si chiude lo spazio aereo per permettere agli elicotteri di condurre le operazioni. La sindaca Ada Colau (non indipendentista) attacca: «Rajoy è un vigliacco e occupa la città».
La giornata comincia che è ancora notte. Alle cinque e mezza davanti a tutte le scuole della Catalogna si radunano le folle senza bandiere.
Sono gli aspiranti elettori che blindano il loro sogno: «Votarem». All' apertura dei seggi mancano tre ore e mezza, ma il primo appuntamento è alle 6 con la polizia, che, sono gli ordini dei giudici, deve chiudere gli istituti. Venti minuti dopo però, davanti alla scuola Diputaciò, nel cuore dell' Eixample modernista si vedono solo due Mossos d' Esquadra, gli agenti dell' autonomia catalana, sospettati di intelligenza con il nemico da Madrid. Si avvicinano timidi alla porta, sono un uomo e una donna e anche volendo (ma non vogliono) non potrebbero chiudere i cancelli con tutta questa gente davanti. L' attesa sarà lunga e comincia anche a piovere: «Sono sette anni che aspettiamo», dice la professoressa Maria Molas.
La data ha un senso: nel 2010 veniva bocciato dalla corte costituzionale lo Statuto d' autonomia voluto dal premier Zapatero e votato in massa dai catalani. Quel No dell' alta corte di Madrid viene considerato l' episodio che ha dato il via a quello che qui si chiama semplicemente «il processo», con l' indipendentismo che è passato dal 15%, a una percentuale vicina alla metà della popolazione.
Due strade più in là, Carrer de Mallorca, stessa scena. Nessuno sgombero previsto, ma manca un elemento: le urne. È l' oggetto più desiderato e ricercato delle ultime settimane e in fila al seggio nessuno sa davvero dove sia.
Le speculazioni finiscono quando arriva un' auto: alla guida c' è una donna, che si ferma davanti all' ingresso. Scende il passeggero ed estrae un grande sacco nero dal portabagagli. Cosa ci sia dentro alla busta è chiaro. L' atto di disobbedienza è lì davanti a tutti, palese e rivendicato, ai Mossos basterebbe poco per requisire il contenitore proibito, ma si girano, letteralmente, dall' altra parte. L' ammutinamento si consuma e quel punto l' applauso è vigoroso. Ora sì: si vota.
Sono solo le otto, i seggi sono ufficialmente aperti. Il governo catalano fa un annuncio importante: «Si può votare in ogni sezione e le schede si possono stampare a casa». È la contromossa alla chiusura delle scuole, che la Procura aveva ordinato e che in qualche caso era riuscito.
L' avviso è accolto con sollievo dagli osservatori, «ora il governo spagnolo può dire che è tutta una farsa ed evitare la violenza».
L' ottimismo dura pochi minuti. I telefoni cominciano a vibrare: «Stanno attaccando la scuola Pau Claris». È la prima di una lunga serie di cariche della polizia nazionale e della Guardia Civil, i corpi dello Stato sbarcati dalle navi con l' intenzione di passare all' azione, requisendo le urne, vista la passività dei Mossos.
I video con le violenze sui votanti cominciano a girare sui social e la situazione precipita in breve.
Nel 2014 i catalani votarono in una consultazione non vincolante, ma grazie a un accordo tra i governi si evitò di mandare la polizia. Stavolta non c' è dialogo alcuno e la prova è che lo stesso presidente della Generalitat Carles Puigdemont trova le camionette delle forze dell' ordine davanti al suo seggio, alle porte di Girona (voterà altrove). Le cariche si susseguono: chiunque ostacoli il passaggio degli «antidisturbios» viene spostato senza riguardo, ci sono molti anziani che finiscono in terra. Arrivano anche proiettili di gomma (proibiti) e lacrimogeni. Un ragazzo rischia di perdere un occhio.
Quando è il caso, e pure quando non lo è, si picchia forte. Il bilancio sale di minuto in minuto: 5 feriti, 12, 54, fino a sfiorare il migliaio a sera (contando i contusi).
La gente, per fortuna, non reagisce (salvo casi isolati) evitando l' ecatombe. La resistenza passiva a volte funziona, come all' istituto Diputaciò, dove gli agenti sono costretti alla retromarcia dal muro di folla che difende l' ingresso. Qui la prendono come una vittoria, ma il 2 ottobre fa più paura dei manganelli.
BARCA A PORTE CHIUSE
Sara Gandolfi per il Corriere della Sera
Piange Piqué. «Si può votare sì, no o in bianco, ma si vota. Sono catalano e sono orgoglioso della mia gente. Non siamo cattivi, vogliamo solo votare». Il difensore del Barça e della nazionale spagnola, nonché compagno della cantante Shakira, si commuove quando quella maledetta partita con Las Palmas (per la cronaca sportiva: 3 a 0 per il Barcellona) finisce, e poi affronta in spogliatoio i giornalisti affamati di frasi a effetto, in questa giornata in cui il calcio è solo un dettaglio.
A nessuno interessa la moviola della partita, giocata a puertas cerradas , con i tifosi fuori dallo stadio di Camp Nou. Vogliono sentire lui, il Catalano che rivendica l' indipendenza e fa spallucce ai fischi nelle arene del resto di Spagna («se la federazione pensa che io sia un problema in nazionale, sono disposto a fare un passo indietro», ha ribadito ieri). Si sono già esposti altri nomi importanti. Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, che sabato aveva annunciato di aver votato per posta, «perché il referendum è legale». E Carles Puyol, l' ex amatissimo capitano, avanguardia dei giocatori-indipendentisti, che di buon mattino aveva twittato: «Votare è democrazia».
Nel gigantesco Camp Nou - il terzo più grande al mondo - l' atmosfera è surreale. Sul tabellone del Barça compare l' immagine di un' urna e la scritta «Democracia», sugli spalti c' è un vuoto abissale attorno alla scritta-motto di sempre «Mes que un club», più di un club. I tifosi, in maggioranza stranieri perché i catalani ieri avevano altro da fare, si aggirano sconsolati all' esterno, con le sciarpe e le magliette di Messi (che ieri, per inciso, voleva giocare).
In campo sono entrati prima gli undici di Las Palmas che provocatoriamente hanno chiesto (e ottenuto) di giocare con una bandiera spagnola cucita sulle maglie. Poi i «blaugrana», di evidente cattivo umore. Una partita dimenticabile, se non fosse per quello che succedeva nel resto di Catalogna proprio in quelle ore.
Piqué prima è andato a votare, lasciando il ritiro, poi ha dovuto giocare, contro la sua volontà, con gli occhi iniettati di rabbia. E davanti ai giornalisti è sbottato: «Volevo solo finire la partita, la peggior esperienza nella mia carriera da professionista. È stata una giornata molto dura le immagini parlano da sole. Quando in Spagna non si votava c' era il franchismo». E poi l' affondo al premier Rajoy: «Quale sia il suo livello è noto, non sa neppure parlare inglese».
Il Barça non è una squadra qualsiasi. Sotto il franchismo era l' unico luogo dove si poteva eleggere un presidente, l' unica bandiera in cui si poteva riconoscere un repubblicano catalano.
Lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán lo definì l'«esercito disarmato della Catalogna» e ieri la squadra ha tenuto fede a quella fama. La società ha cercato di far sospendere la partita - come peraltro è avvenuto in tutti gli altri stadi di Catalogna - ma la Liga, che governa la serie A spagnola, si è opposta e ha minacciato una sanzione di sei punti.
Dirigenti, tecnici, giocatori a quel punto hanno discusso a lungo, la squadra più internazionale del mondo si è spaccata - Messi e Suarez volevano scendere in campo ed evitare penalità, i catalani no - e solo a pochi minuti dal fischio d' inizio si è piegata al volere della Federazione reale di calcio spagnola, braccio sportivo del potere madrileno che ha già minacciato di espellere il Barça dalla Liga se la Catalogna proclamerà l' indipendenza. La squadra ha però voluto giocare a porte chiuse, «perché tutto il mondo si renda conto dell' anomalia», ha sottolineato il presidente Josep Maria Bartomeu. Non è bastato al vice, Carles Villarrubì, e al responsabile dell' area medica che si sono dimessi subito dopo.
I più colpiti, però, ieri sembravano i tifosi stranieri. Come il cinese Jerry che scuote la testa: «La politica non dovrebbe avere conseguenze sullo sport.
Noi siamo vittime». Ma in Cina, si sa, la democrazia è ancora un mistero.