ERA CEAUSESCU - IL MARCHESE FULVIO ABBATE: FRA TUTTI I MURI E LE STACCIONATE DEL SOCIALISMO REALE VISTI CROLLARE IN DIRETTA TELEVISIVA, QUELLA DI BUCAREST, TRENT’ANNI ESATTI FA È FORSE LA CADUTA, IL PRECIPIZIO POLITICO CHE PIÙ ASSOMIGLIA A UNO SPETTACOLO GRANGUIGNOLESCO, TRA SANGUE, SPARI, URLA, LA FUCILAZIONE DEL TIRANNO E DI SUA MOGLIE ELENA, LA LADY MACBETH DEL REGIME…. - VIDEO
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Fulvio Abbate per huffingtonpost.it
Era Ceausescu. Fra tutti i muri e perfino le staccionate del socialismo reale visti crollare in diretta televisiva, quella di Bucarest, trent’anni esatti fa, nel pieno della festività natalizia, è forse la caduta, il precipizio politico che più assomiglia a uno spettacolo granguignolesco, tra sangue, spari, urla, e ancora colpi di fucile che spazzano le strade della Romania al suo risveglio.
Merito e insieme colpa del signore e padrone locale, Nicolae Ceausescu, il Presidente, pretendente al trono comunista di “Conducator”.
Quel dicembre si racconta tra Timisoara e Bucarest. Negli occhi, ancora adesso la memoria dell’abbigliamento dei rivoltosi, simili a torme di sfollati che provano a fuggire da un esodo in tempo di pace apparente, anteriore perfino all’azzurro capitalistico “Adidas”, un’orda assiepata nelle piazze, in attesa del culmine della storia post-bellica della Romania socialista: la fucilazione del Tiranno e di sua moglie, la “Strega”, Elena, mostrata, nell’incubo comune, come complice d’ogni arbitrio, trasfigurata nell’astio popolare, appunto, in fattucchiera, la Lady Macbeth del regime.
A fronteggiarsi, spettrali e insieme struggenti, i cappotti di panno ruvido dell’esercito regolare infine sollevato, in un tripudio fantasmatico di bandiere nazionali svuotate al centro dal simbolo dell’oppressione, unico esempio di araldica di Stato che mostri un traliccio tra corona di spighe e stella rossa; non dimentichiamo che Stalin, cui Nicolae, a suo modo, deve essersi ispirato per vocazione paternalistica, pretendeva sinfonie che rendessero onore all’elettrificazione dell’Urss.
Non meno vero che Ceausescu, per decenni, ebbe modo d’essere ritenuto un irregolare. Nominato presidente del Consiglio di Stato nel 1967, rifiutando la teoria della “sovranità limitata”, sfida la supremazia sovietica non prendendo parte all’invasione della Cecoslovacchia.
Un “riformatore” nell’improprio sentire comune, Nicolae; perfino le nostre feste de l’Unità offrivano le sue opere, accanto agli scialli e alle matrioske del “Paese guida”.
Dettagli, minuzie, posto che il Natale del 1989 lo trova ormai sotto finale, la rovina è infatti imminente, lontana l’ascesa, il regime è pronto ad accartocciarsi su se stesso, per precipitare presto a capofitto.
E Nicolae? Eccolo al balcone del palazzo presidenziale, reggia di marmi dei Carpazi, il colbacco di astrakan, come Don Camillo e Peppone insieme in viaggio oltrecortina, con la folla dei grandi raduni ufficiali che, sebbene convocata per l’ennesimo bagno di regime, prende a inveire proprio contro il Capo, segnale plastico della rivolta. Gli rimarranno a fianco, ricordiamo, i suoi “orfanelli”, e la polizia segreta, i cecchini della “Securitate”.
Un cupo carosello di singoli colpi e poi raffiche che l’altro ieri Raitre, con “Blob”, ha riproposto a memoria del calendario terminale dell’illusione comunista nella terra dell’ “Impalatore”, Vlad Tepes, Dracula.
Le bandiere senza più simboli del socialismo reale? Detto. In cima alle aste nel baratro di una diretta televisiva infinita, informale, i protagonisti della “colpo di Stato” a darsi il cambio negli appelli del “tribunale volante” militare, per Nicolae l’accusa di “genocidio” per la strage di Timisoara (la notizia si rivelerà tuttavia falsa) con l’aggravante di “aver condotto la popolazione rumena alla povertà e di aver accumulato illegalmente ricchezze”. Un processo fuori da ogni protocollo, come accade in tempo di terrore e comitati di salute pubblica, la fascia dai colori nazionali al braccio degli ufficiali-giudici, mentre in strada i soldati insistono nel fare fuoco, distesi per terra, verso ogni anfratto che mostri sacche di resistenza, gli “orfanelli di Ceausescu” non ancora ridotti al silenzio, o piuttosto si trattava di mercenari libici e siriani disposti cedere solo dopo avere preso coscienza dell’atto finale, l’esecuzione di Nicolae e Elena, sempre televisivamente mostrati.
L’Orco e la Strega, dietro a un banco di scuola, rintuzzano ora le accuse, mostrano tracotanza e insieme arrendevolezza, batte il berretto d’astrakan sul tavolo, un Nicolae che sembra infine dire sia fatta la rovina nostra e altrui, la storia abbia il suo corso. Il crepitio dei kalashnikov sui loro corpi da lì a poco.
Eppure, pensandoci bene, l’immagine più significativa, ancora di più della fucilazione dei titolari del potere, è nell’attesa di Zoia, la figlia prediletta, tra i soldati che l’hanno in custodia, così durante la ricognizione del tesoro privato dei Ceausescu, tazze e suppellettili dorati, Zoia regge il guinzaglio del suo cocker spaniel, sprazzo di innocenza dorata nel carnaio di stracci, fucili, elmetti, un sacchetto da duty-free shop colmo di una stecca di Marlboro nell’altra sua mano.
Cosa ha trattenuto la memoria comune di quel dicembre di gelo, trent’anni fa, a Bucarest? I cappotti di panno, i simboli spettrali della “democrazia popolare” infine strappati, le misere giacche a vento, i maglioni di celeste stinto, i berretti di lana da fantocci mortuari tra neve e segatura sporca di sangue, i dispacci del nuovo potere che assicurano tutto essere ormai finito, la situazione sotto controllo, e il despota e signora, Elena che aveva il privilegio di donare a se stessa lauree “honoris causa” di scienze mai sfiorate, ormai simili a un mucchio di cenci sotto il muretto scrostato di una scuola di periferia, la sciarpa scozzese del “Conducator” infine nel fango. Tra le accuse: “Cercando di fuggire dal paese sulla base dei fondi per oltre un miliardo di dollari, depositati in banche straniere”.
Ironia di un sogno quasi imperiale, ambizioni da Caligola di Transilvania, il plico che custodisce lo scettro che Nicolae aveva commissionato a una gioielleria parigina di Place-Vendôme, giungerà a Bucarest con Nicolae già cadavere. La sua tomba, poco più di un cumulo di terra, a definitiva cancellazione del suo transito nel governo della nazione…
Negli anni, su quel mucchietto, quasi a rimpiangerlo, sorgerà, se non un mausoleo, un cenotafio di granito rosso da padre della Patria perduta, colmo di fiori, ad accogliere insieme marito e moglie. Avverrà dopo che il racconto retorico della sopraggiunta liberazione dalle miserie del socialismo avrà incontrato la percezione e i dubbi di una continuità, la convinzione che i nuovi signori di Romania avevano condiviso perfino l’ultima cena con Nicolae, storie di trasformismo, più prosaicamente, di gattopardismo; resta però su tutto il ricordo di una diretta televisiva segnata dall’assenza di un possibile montaggio, un unico filo, i suoi fuori campo, l’epilogo mosso e fuori fuoco della doppia fucilazione.
Il mattino del giorno dopo, ricordo di aver proposto a Giulio Einaudi un breve romanzo intitolato “Casa Ceausescu”, una sit-com sugli orrori del socialismo nel paese dei vampiri, protagonista un padre satrapo accompagnato da una compagna proterva, senza dimenticare il resto dei familiari, come no, Nicu, l’altro figlio, aspirante erede presidente, Nicu di cui si narrava ogni infame magnificenza; sullo sfondo Nadia Comaneci, sua vittima eccellente, a volteggiare nell’ossessione agonistica olimpionica propria dei paesi di un comunismo mai davvero sfiorato. Peccato, non averlo mai scritto.
Negli anni, in Romania, il giudizio su Ceausescu è tuttavia mutato. Un sondaggio del 2014, durante uno show televisivo, ha evidenziato che addirittura il 66% dei cittadini ha un’opinione positiva del suo operato. Resta che elogiarlo sui media è proibito dalla legge.