Alessandro Trocino per il Corriere della Sera
«A me piace il popolo, la piazza, non il Palazzo». L' assessore Gianni Lemmetti, t-shirt quasi sobria con Alfred Hitchcock, respira a pieni polmoni. E pazienza se tra non molto potrebbe sloggiare dal Campidoglio: «Se condannano la Raggi? Non sono preoccupato per le indagini per bancarotta su di me, figuriamoci per lei». E il ritorno alla piazza sembra il destino di un Movimento che pare stia prendendo atto dell' ineluttabile.
Non è un caso che Beppe Grillo, annunciato persino dal blog («Anche Beppe sarà in piazza per salutare tutti e darci il suo abbraccio»), decida di disertare una piazza molto meno piena del giorno precedente. Al suo posto, la fugace e non acclamata presenza della sindaca Virginia Raggi. La fine era nota. E la disfatta parlamentare prepara la battaglia di «popolo». «Questa è una rottura istituzionale - dicono ai piani alti -. Da qui non si torna indietro. Preparatevi a qualcosa di grosso».
Tra i 5 Stelle davvero si respira un' aria da tregenda. «State in campana», avverte Luigi Di Maio, che ha rimesso la marsina ministeriale in fondo al cassetto. I 5 Stelle di governo lasciano spazio ai 5 Stelle di lotta. E si preparano al tutto per tutto: guerriglia parlamentare, ma anche grandi manifestazioni di piazza. Tra le ipotesi ci sono le dimissioni di massa, un Aventino simbolico per segnare l' avvento del Regime. Perché l' evocazione del fascismo non è più un espediente retorico, è la sensazione della fine di un' epoca, dell' impossibilità di giocare la partita. Alessandro Di Battista sembra rassegnato: «Lottiamo per vincere, ma il governo per noi non è un fine, si può cambiare il Paese anche in altro modo».
il padre di Di Battista contro Pappalardo
Quando Di Maio, nel discorso finale, dice «o noi o loro», sa che le speranze che prevalga il noi non sono molte, con la nuova legge elettorale e senza alleanze. E allora bisogna alzare i toni. In piazza si comincia con i «vaffa» a Emanuele Fiano, si prosegue con gli insulti a Maurizio Lupi e Renato Brunetta. In mezzo c' è lo scontro tra il padre di Di Battista e il generale Antonio Pappalardo.
Il primo prova a vendicare i fischi dei Forconi al figlio, a suon di sganassoni. Bloccato, viene allontanato. Il figlio spiega l' errore della piazza, che lo ha portato dai Forconi: «Mi sembrava di essere Verdone in Compagni di scuola ». Ma poi difende il padre: «Sono fiero di lui, meglio che avere come genitore Tiziano Renzi».
Ma sono siparietti in un clima più cupo. Il voto finale è accolto al grido di «maledetti», «buffoni», «massoni». Si annuncia una campagna dai toni incendiari. E i vertici hanno già dato mandato di colpire un altro «movimento» che ha un bacino elettorale contiguo, quello dei leghisti.
Di Battista batte con forza sul tasto: «Ce l' ho con i leghisti, certo, ci hanno rotto per anni con la storia delle ruspe e si sono venduti per un piatto di minestra». Ma poi esplicita i motivi dell' attacco concentrico: «Sono divisi, se li colpiamo riusciamo a portargli via un po' di voti». Può darsi, ma alla fine i 5 Stelle temono il rischio di doversi rassegnare ad altri cinque anni di opposizione. È per questo che ieri il blog titolava: «Il vero Parlamento sta da questa parte». La parte della piazza. Dove Lemmetti si trova a suo agio. E dove però ieri Grillo non è andato. «Un po' stanchino», come disse citando Forrest Gump. Ma soprattutto deluso e ben poco fiducioso nel futuro.