GUERRA PER PROCURA – “LA VERITÀ” CONTRO IL “CORRIERE” PER COME HA TRATTATO LA VICENDA DEL PROCESSO ENI, FINITA CON LA PROCURA GENERALE CHE HA DETTO NO ALL’APPELLO, ATTACCANDO IL PM DE PASQUALE: “IL QUOTIDIANO DI VIA SOLFERINO HA COMUNQUE VOLUTO RIBADIRE COME ‘DI CERTO LA SCELTA DELLA PG È INTANTO UN PECCATO. UN'OCCASIONE PERSA PERSINO PER GLI IMPUTATI, PERCHÉ FINISCE PER INDEBOLIRE LA CONSIDERAZIONE DELL'ASSOLUZIONE DI PRIMO GRADO’. FORSE NON SI SONO RESI CONTI CHE LE TESI DI CELESTINA GRAVINA NON SONO ESATTAMENTE UN CASO ISOLATO. NON TANTO IN ITALIA, QUANTO NEL MONDO INTERO…”
-Alessandro Da Rold per “La Verità”
Era l'11 settembre del 2014 quando il Corriere della Sera dava in prima pagina, a caratteri cubitali nel taglio del quotidiano, la notizia che l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si trovava sotto inchiesta per una tangente da più di un miliardo di euro legata all'acquisizione della licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria.
A distanza di quasi otto anni, il quotidiano di via Solferino ha dedicato uno spazio di gran lunga minore alla notizia dell'assoluzione definitiva del manager del Cane a sei zampe. Eppure, martedì la Procura generale di Milano ha preso una posizione molto netta sul processo che avrebbe dovuto dimostrare la corruzione di una delle aziende più importanti di questo Paese.
Il procuratore generale Celestina Gravina ha deciso di rinunciare al ricorso e ha ribadito come, nel procedimento, non ci fosse «prova dell'accordo per una corruzione» o «pagamento di un'utilità corruttiva». E ha insistito sul fatto che il processo non andava neppure celebrato. Men che meno l'appello, anche perché non esistono nuovi elementi «per sostenere l'accusa».
Quindi un eventuale ricorso non avrebbe avuto alcuna forza «per un eventuale ribaltamento del principio dell'oltre ragionevole dubbio».
Per il Corriere, però, questa presa di posizione si vede che non è bastata per dimostrare l'inutilità di un nuovo appello dopo l'assoluzione di tutti gli imputati in primo grado «perché il fatto non sussiste» .
Così nel pezzo di cronaca di ieri, il quotidiano di via Solferino ha comunque voluto ribadire come «di certo la scelta della pg è intanto un peccato. Un'occasione persa persino per gli imputati, perché finisce per indebolire la considerazione dell'assoluzione di primo grado, che invece da un vaglio e da una riconferma in Appello sarebbe uscita rafforzata, magari anche nelle aspre critiche ai due pm indagati intanto per non aver depositato prove favorevoli alle difese».
In via Solferino, alle prese con il nuovo capo della Procura Marcello Viola, forse non si sono resi conti che le tesi di Celestina Gravina non sono esattamente un caso isolato. Non tanto in Italia, quanto nel mondo intero. È lunga la lista dei Paesi che si sono espressi su quella che veniva considerata come la tangente del secolo. Negli Stati Uniti la Sec (Securities and exchange commission) già due anni fa aveva chiuso le sue indagini senza portare avanti altri procedimenti contro Eni e Shell.
Negli ultimi mesi la corte inglese, il giudice Sara Cockerill, si è pronunciata a favore di Jp Morgan Chase nella causa da 1,7 miliardi di dollari promossa dal governo nigeriano rispetto al presunto ruolo della banca d'affari nelle trattative di acquisizione della licenza petrolifera nel 2011. L'alta corte di giustizia del Regno Unito ha ribadito la sua decisione lo scorso 7 luglio, impedendo al governo federale nigeriano di appellarsi alla sentenza. Proprio come sostenuto dal procuratore generale Gravina, anche l'alta corte ha affermato che non vi era «alcuna prospettiva reale» di ribaltare la sentenza.
E ha stabilito una volta per tutte che non c'erano prove che la Nigeria fosse stata truffata nell'accordo tra Eni, Shell e Malabu. C'è poi da ricordare che su Opl 245 non è mai iniziato alcun processo in Olanda, dove la compagnia petrolifera Shell non è mai finita sotto accusa. Gli olandesi, infatti, hanno sempre preso tempo in questi anni, stando ben attenti a mettere sotto accusa un'azienda strategica come Shell. Persino l'alta corte federale di Abuja in Nigeria si è più volte espressa contro le ipotesi di corruzione nella vicenda.
Nel 2018 aveva già stabilito che l'ex ministro di giustizia Adoke Bello non poteva essere ritenuto personalmente responsabile per quanto riguardava i pagamenti a Malabu perché stava semplicemente eseguendo le legittime direttive e approvazioni del presidente Goodluck Jonathan. L'ultima decisione di Abuja è di poche settimane fa. I giudici nigeriani hanno ribadito di non riuscire «a vedere alcun fatto a sostegno della tesi che i soldi siano il risultato di attività illegali».
In sostanza, la corte nigeriana ha escluso che vi siano evidenze di provenienza illecita dei fondi. La repubblica nigeriana aveva presentato ricorso per ottenere in via di urgenza il sequestro delle somme depositate presso conti correnti in banche svizzere, anche questo sulla base dell'attività della Procura di Milano, dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. In questi anni l'unica sentenza di condanna è stata quella nel processo abbreviato a carico di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i presunti intermediari della mazzetta. Anche questa è stata ribaltata in appello. Non è rimasto più nulla dal punto di vista giudiziario.