HA RAGIONE ZUCKERBERG QUANDO DICE: “FOLLE PENSARE CHE FACEBOOK ABBIA INFLUENZATO LE ELEZIONI CON LE NOTIZIE FALSE” – PRIMO: LA RETE, CON TUTTI QUEI “BUCHI”, È IMPOSSIBILE DA CONTROLLARE – SECONDO: IL PRIMO NEMICO DI TRUMP SONO LE IMPRESE DELLA SILICON VALLEY. THE DONALD VUOLE BLOCCARE L'AFFLUSSO DI IMMIGRATI (ESSENZIALE PER AZIENDE BISOGNOSE DI CERVELLI STRANIERI), HA MINACCIATO INIZIATIVE ANTITRUST CONTRO AMAZON E VUOLE SPINGERE APPLE A PRODURRE TUTTO IN AMERICA
Massimo Gaggi per Corriere della Sera
«Folle pensare che Facebook abbia influenzato le elezioni con le notizie false pubblicate sulle nostre pagine». Mark Zuckerberg reagisce alle accuse piovute sul social network più influente del mondo, il canale usato per informarsi dal 44 per cento degli americani. Non sono state certo solo le bufale sul web a dirottare voti verso Trump, ma il fondatore di Facebook sbaglia a usare toni così perentori e dice una cosa non vera quando sostiene che le storie false che circolano in Rete, prive delle verifiche di veridicità fatte dai media tradizionali, sono equamente distribuite tra pro-Trump e pro-Clinton: un'analisi di Buzzfeed indica che quelle che hanno avvantaggiato il candidato repubblicano sono state il doppio di quelle favorevoli alla ex first lady.
Questione di quantità, ma anche di intensità: «L' ascesa di Trump è stata favorita dai news feed delle reti sociali», sostiene su LinkedIn Bobby Goodlatte, un product designer che ha lavorato per quattro anni a Fecebook. «Questi feed funzionano con algoritmi che massimizzano il coinvolgimento degli utenti. E le cavolate attirano molto di più di una storia vera», verificata, senza false suggestioni.
Facebook, che fino a ieri vantava la sua centralità nell' informazione mentre ora spiega con l' improvvisa modestia del suo portavoce che «nelle elezioni siamo stati solo uno dei tanti canali con i quali i cittadini hanno ricevuto informazioni», non può chiamarsi fuori. Ma certamente l' influenza che la tecnologia ha avuto sull' esito del voto va molto al di là della società di Zuckerberg.
Le imprese della Silicon Valley, ancora sotto choc per un evento che giudicavano impensabile, la vittoria di Trump, si preparano a fare i conti con un presidente che vuole bloccare l' afflusso di immigrati (essenziale per aziende bisognose di cervelli stranieri), che ha minacciato iniziative antitrust contro Amazon e vuole spingere Apple a produrre tutto in America. C' è chi sale sulle barricate come il venture capitalist Shervin Pishevar: propone la secessione della California dagli Usa e si dice pronto a finanziare la relativa campagna.
Ma i più, archiviati i giudizi sprezzanti, tendono la mano. Il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, detestato da Trump soprattutto per gli attacchi del suo Washington Post , si congratula: «Accolgo la sua elezione senza pregiudizi e le auguro grande successo». Lo stesso Zuckerberg che in passato aveva criticato apertamente Trump («noi costruiamo ponti, non muri»), ora dice che chi se la prende con Facebook per l' esito del voto, «non ha capito cosa ha mosso gli elettori».
Cosa? Lui non lo spiega, ma molte voci autocritiche della Silicon Valley che ora si interrogano su quanto è accaduto, indicano tre fattori, tutti influenzati dalla tecnologia.
Il primo riguarda uno sviluppo delle piattaforme digitali che ha portato al declino del giornalismo, alla perdita di peso delle verifiche sulle storie messe in Rete a una minor rilevanza dei fatti certi. Nella echo chamber degli strumenti digitali di comunicazioni le suggestioni contano più delle azioni.
L' ha capito bene Trump, salito sul palcoscenico della politica sei anni fa con la bufala dell' Obama presidente illegittimo perché nato fuori dagli Usa e pronto a usarne un' altra contro Ted Cruz quando il senatore del Texas stava diventando un avversario pericoloso: «Suo padre coinvolto nell' uccisione di Oswald, l' assassino di John Kennedy».
Il secondo fatto riguarda la sicurezza di Internet. Molti percepiscono la facilità con la quale gli hacker hanno trafugato interi archivi di email del Partito democratico o della campagna di Hillary Clinton come un fallimento tecnologico delle aziende del settore, incapaci di proteggere i loro sistemi.
Il terzo, quello forse più controverso, riguarda il fattore lavoro. Le imprese digitali hanno sempre visto la tecnologia come un fattore positivo per tutti: facilita la vita, elimina lavori pesanti trasferiti alle macchine, ne crea di nuovi, meno alienanti. Ma ora che, oltre ai lavori in fonderia e verniciatura, spariscono anche quelli d' ufficio si scopre all' improvviso un enorme problema sociale di numero di posti di lavoro e sperequazioni retributive.
Il visionario dell' auto elettrica e dello spazio, Elon Musk, dice che i milioni di autisti che perderanno il lavoro col camion che si guida da solo non devono preoccuparsi: un giorno riceveranno uno stipendio pagato col lavoro dei robot. In attesa di questo mondo favoloso, però, i colletti blu rimasti senza impiego o pagati sempre meno se ne vanno da Trump.
Silicon Valley scopre all' improvviso che la tecnologia non è un toccasana per tutti. «Dobbiamo respirare profondamente e riflettere su quello che è successo», dice il venture capitalist Mark Suster al New York Times . «Serve una proposta politica che affronti in modo realistico le diseguaglianze che affliggono questo Paese».