“IT’S THE ECONOMY, STUPID!” – A DECIDERE LE ELEZIONI AMERICANE SARÀ IL PREZZO DELLE UOVA? UNA CONFEZIONE DA 12 NEL 2017, SOTTO TRUMP, COSTAVA 1,60 DOLLARI. OGGI NE SERVONO 3,80 – IL PARADOSSO: L’ECONOMIA A STELLE E STRISCE È CRESCIUTA DURANTE LA PRESIDENZA BIDEN, LA DISOCCUPAZIONE È AI MINIMI STORICI E WALL STREET VOLA. MA QUASI IL 70% DEGLI AMERICANI PENSA CHE SI STESSE MEGLIO PRIMA – I PREZZI DEI BENI DI PRIMA NECESSITÀ E IL COSTO DEL DENARO SONO AUMENTATI…
-Estratto dell’articolo di Roberto D’Alimonte per “Il Sole 24 Ore”
S arà il prezzo delle uova a decidere l’esito delle presidenziali americane? Potrebbe essere così. E in fondo non sarebbe una grande novità. È un fatto ben noto che le elezioni Usa sono da tempo profondamente influenzate dall’andamento dell’economia. […]
Questa volta però siamo di fronte a un apparente paradosso. L’economia americana va bene. Ma gli americani non sono contenti. Quasi il 70% pensa che il Paese vada nella direzione sbagliata. Tutto ciò in un momento in cui l’economia cresce a tassi ben superiori a quelle di Germania, Giappone, Italia - il Pil Usa è salito del +8,7% dai livelli pre pandemici - la disoccupazione è ai minimi storici, il numero degli occupati segna un record: Biden ha creato 16 milioni di posti di lavoro contro i 6 milioni di Trump.
La Borsa di New York continua a macinare rialzi: dal 20 gennaio 2021 data di insediamento del presidente Biden a giovedì scorso 24 ottobre, l’indice Dow Jones è salito del +50,7%, l’S&P 500 del +35,7% e il Nasdaq del +51,9 per cento. Eppure la percezione diffusa soprattutto tra le classi più deboli è che si stava meglio quattro anni fa quando alla Casa Bianca c’era Donald Trump. Ed è qui che entra in gioco il prezzo delle uova.
Agli elettori e alle elettrici che vanno a fare la spesa ogni giorno non interessano i dati macroeconomici che vengono utilizzati per dimostrare il successo della Bideneconomy. Per loro conta il prezzo dei beni essenziali come le uova per l’appunto.
Una dozzina di uova costava 1,60 dollari a gennaio 2017, quando si è insediato Trump. A settembre di questo anno è arrivata a costare 3,8 dollari, più del doppio e ben più del tasso di inflazione registrato nel periodo. Quello che è successo al prezzo delle uova è successo al prezzo della pancetta, al latte ed altri beni di largo consumo, compresa la benzina.
Ed è successo al costo del denaro che ha inciso pesantemente sul costo dei mutui e dei debiti contratti con le carte di credito. La conseguenza è stata la riduzione del potere di acquisto delle classi più deboli. Una riduzione che non è stata al momento ancora compensata da un aumento dei salari che pure c’è stato, ma in misura insufficiente e non uniforme.
E allora non c’è da sorprendersi se agli operai bianchi degli Stati del Midwest che hanno da tempo abbandonato il partito democratico si stanno aggiungendo anche pezzi dell’elettorato nero e ispanico. Anche per loro far quadrare i conti della spesa è diventato difficile.
Insomma è un dato di fatto che l’inflazione è uno dei fattori che spinge il consenso verso Trump. Ed è difficile per la Harris controbattere che inflazione e tassi di interesse sono scesi e continuano a scendere, ma non è così per il livello dei prezzi dei beni essenziali. Il prezzo delle uova oggi è ancora ben superiore a quello dei tempi di Trump. Né serve l’argomento che il governo non ha responsabilità specifiche per una inflazione che è lo strascico della pandemia.
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Durante l’amministrazione Trump gli immigrati illegali non hanno mai superato i 150.000 ingressi mensili. Per la maggior parte del periodo sono stati meno di 50.000 e la media è stata largamente sotto le 100.000 unità. Durante gli anni di Biden la media degli ingressi si è alzata notevolmente fino a quando, a giugno di questo anno, Biden si è deciso ad adottare una politica più restrittiva che ha drasticamente ridotto gli ingressi. Troppo tardi però per far cambiare idea a tanti elettori.
Arrivati a questo punto la conclusione sembrerebbe scontata. In realtà lo è solo per gli scommettitori che danno Trump vincente con il 60% di probabilità. I dati di sondaggio raccontano un’altra storia. Che siano attendibili o meno lo scopriremo la notte del 5 novembre. In passato non lo sono stati perché hanno sistematicamente sottovalutato Trump. Questa volta potrebbe essere il contrario.
In questo momento la partita sembra ancora aperta e si giocherà in Nevada, Arizona, Georgia, North Carolina, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Sono questi i “magnifici sette” che decideranno chi sarà il prossimo presidente Usa. In questi sette Stati la media aggiornata dei sondaggi calcolata da Real Clear Politics dà Trump davanti con margini un pochino più ampi nei primi quattro e meno ampi negli altri, quelli del Midwest. Se li conquistasse tutti, la sua vittoria sarebbe nettissima, come è stato nel 2016. Ma potrebbe succedere che Harris vinca in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, oltreché negli altri Stati tradizionalmente democratici [...] In questo caso arriverebbe a 269 seggi.
Le mancherebbe un voto per diventare presidente. E questo potrebbe venire dal Nebraska, uno Stato decisamente repubblicano. Questo è uno dei due Stati (l’altro è il Maine) dove i seggi del collegio elettorale non vengono assegnati con un sistema completamente maggioritario.
Quattro dei cinque seggi a disposizione andranno sicuramente a Trump. Ma il quinto seggio, quello della città di Omaha, la città di Warren Buffett, è possibile che vada alla Harris. Sarebbe un risultato clamoroso che creerebbe una situazione molto delicata in un Paese profondamente diviso.