“SI RIMPROVERA A DRAGHI DI AVER USATO PAROLE TROPPO DURE. MA MATTARELLA AVREBBE PARLATO IN MODO DIVERSO? DIFFICILE, DATA LA POSTA IN GIOCO…” - MARZIO BREDA: “È DIFFICILE CREDERE CHE AVREBBE SOPPORTATO CON LA LEGGEREZZA DI UN SORRISO LA SORTITA DEL CAPOGRUPPO LEGHISTA, MASSIMILIANO ROMEO, PREAMBOLO DELLO STRAPPO SALVINIANO. PER DRAGHI PRESIEDERE IL GOVERNO ERA DIVENTATO COME IL SUPPLIZIO DI SISIFO, E L'AVEVA SPIEGATO AL CAPO DELLO STATO. GUIDARE PALAZZO CHIGI NELLE CONDIZIONI IN CUI SI TROVA LA POLITICA ADESSO È UN'IMPRESA TALE DA RICHIEDERE ENORMI SFORZI CHE DA MESI NON PRODUCONO (O QUASI) RISULTATI. ECCO PERCHÉ MOLLAVA”
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Marzio Breda per il “Corriere della Sera”
Perché Draghi dovrebbe salire al Quirinale a dimettersi? Ha appena ottenuto la fiducia del Senato, dunque non ha alcun obbligo di dimettersi Fingevano una paradossale indifferenza, certi esegeti di Mattarella che ieri sera tentavano di smorzare l'impatto della surrettizia «promozione» del governo a Palazzo Madama. È vero, l'agenda parlamentare di oggi prevede la possibilità di un secondo round del premier a Montecitorio, alle 9. Ma ormai ci si aspetta che usi quell'appuntamento solo per ribadire la propria rinuncia, per poi confermarla al capo dello Stato.
Dimissioni irrevocabili, stavolta, dopo la grottesca giornata di ieri, che ha offerto ai cittadini un test del livello di irresponsabile ambiguità di alcuni partiti. Quelli che, dai 5 Stelle al centrodestra, non hanno avuto il coraggio di cacciare Draghi, pur volendolo perché già preda di convulsioni pre-elettorali, e hanno fatto perciò ricorso a dei bizantinismi procedurali di un livello davvero infimo. Uno «spettacolo» che gli italiani hanno seguito in diretta tv, come ha fatto pure il presidente della Repubblica. Sconcertato per quel che andava in onda e veniva rilanciato nel mondo.
Eppure ce l'aveva messa tutta, Mattarella, per evitare che la legislatura fosse chiusa in questa maniera traumatica, mentre il Paese è ancora stretto dalle emergenze. Aveva convinto Draghi a congelare l'addio, giovedì scorso, anche se lo aveva visto molto determinato e pessimista. Sperava in un ripensamento che c'è stato, da parte del premier.
Adesso, dopo che la prova per un «nuovo patto» è andata male, qualcuno incolpa il capo dell'esecutivo d'aver usato parole troppo ruvide. Per esempio verso la Lega, quando ha toccato i temi del catasto, della concorrenza, della giustizia, della guerra russa in Ucraina. Ma anche verso i 5 Stelle, quando è sbottato sugli errori del reddito di cittadinanza e del Superbonus.
Avrebbe parlato in modo diverso, Mattarella? Difficile, data la posta in gioco. Come è difficile credere che avrebbe sopportato con la leggerezza di un sorriso la sortita del capogruppo leghista, Massimiliano Romeo, preambolo dello strappo salviniano.
Per Draghi presiedere il governo era diventato come il supplizio di Sisifo, e l'aveva spiegato al capo dello Stato.
L'uomo del mito - si sa - era condannato a portare verso la cima di un monte un macigno che gli sfuggiva sempre, rotolando verso la valle, e il suo destino era di ricominciare ogni volta l'inutile fatica. Fuor di metafora: guidare Palazzo Chigi nelle condizioni in cui si trova la politica adesso è un'impresa tale da richiedere enormi sforzi che da mesi non producono (o quasi) risultati. Ecco perché mollava.
Il presidente lo aveva bloccato, rinviandolo alle Camere sia per ragioni di trasparenza (le crisi vanno «parlamentarizzate») sia per una estrema speranza. Frustrata. Quando si è aperto il confronto al Senato, lo ha seguito con una inquietudine che a ogni passaggio cresceva. Al punto da cercar di vederci chiaro lui stesso, a metà giornata, dopo aver assistito all'ultima evoluzione di un centrodestra pronto a sfilarsi e che perciò cavalcava senza ritegno la pochezza dei 5 Stelle. Ha alzato il telefono e ha chiamato Salvini e Berlusconi, per sentire i loro orientamenti.
Entrambi gli hanno letto il comunicato concertato insieme, con richiesta di un esecutivo di discontinuità. Vale a dire un Draghi 2, senza i grillini, con un diverso programma e con un rinnovo della squadra di ministri. Una strada impraticabile, per il premier. Infatti, una cosa era per lui saggiare il perimetro della maggioranza che poteva uscire da Palazzo Madama, altra cosa imbarcarsi in un negoziato al ribasso rispetto alle urgenze del Paese. Mattarella si è limitato ad ascoltare i suoi interlocutori (ce ne sono stati anche altri), limitandosi a prendere atto di quanto sentiva.
E senza esercitare pressioni. È come se si fosse portato avanti con il lavoro, insomma, accelerando la pratica di una crisi che, giunti ormai a fine legislatura, non contempla nessun piano B. Cioè nessuna possibilità diversa dallo scioglimento immediato, per votare il 25 settembre o il 2 ottobre. Ne discuterà oggi con i presidenti delle Camere. E non rinuncerà a far sapere agli italiani come la pensa lui.