LIBERO ODIO IN LIBERO STATO - DOPO DIEUDONNÉ E CHARLIE, LA FRANCIA SI DIVIDE: È GIUSTO CENSURARE I DISCORSI CHE ISTIGANO AL DISPREZZO? E C’É CHI DICE: “IL RAZZISMO NON È UN’OPINIONE MA UN REATO"
Anais Ginori per “la Repubblica”
Nella diciassettesima camera del Tribunale di grande istanza di Parigi non c’è aggettivo, frase, battuta, concetto, che non venga soppesato, contestualizzato: discussioni infinite per decidere cos’è lecito dire, scrivere. Il romanziere si ritrova accanto al giornalista, un presentatore televisivo vicino a un comico, un attore a un filosofo. La diciassettesima camera, o Chambre de la presse, è il luogo dove da più di un secolo si fissano i limiti di uno dei beni più preziosi della democrazia: la libertà di espressione.
In quest’aula affacciata sulla Senna, in cui è stato processato anche Flaubert per oltraggio alla morale pubblica e religiosa dopo la pubblicazione di Madame Bovary, s’incontrano ai giorni nostri la direttrice di Closer accusata di violazione della privacy, un blogger razzista, Jean-Marie Le Pen che ha scherzato sui rom.
Passano il comico Dieudonné per le sue ironie sulla Shoah, un semplice cittadino che diffonde teorie del complotto, un rapper con una canzone omofoba, il direttore di Le Monde per uno scoop, ma anche la scrittrice Marcela Iacub per il suo libro scabroso su Dominique Strauss-Kahn.
È in questa sorta di salotto culturale che dal lontano 1881 i magistrati stabiliscono di volta in volta la differenza tra informazione e diffamazione, umorismo e insulto. Una tradizione giuridica unica che ha permesso al paese dei Lumi di essere ancora oggi una delle nazioni più liberali e aperte nell’espressione di idee e opinioni.
Eppure all’alba di questo 2015 la Chambre de la presse sembra di colpo travolta, impreparata ad affrontare una delle patologie della nostra epoca: hate speech, il discorso dell’odio che, contrariamente al passato, si propaga in pochi clic, diventa virale, inarrestabile e soprattutto banale nella sua micidiale diffusione.
Nell’ultimo anno, le dichiarazioni antisemite sono raddoppiate e quelle contro i musulmani sono aumentate del 70% dopo gli attentati di Charlie Hebdo . Una valanga di astio e intolleranza che ha convinto il governo a toccare la “sacrosanta” legge del 1881, baluardo della République finora mai rimesso in discussione. A giorni dovrebbe essere presentata la riforma secondo cui le dichiarazioni razziste, antisemite, e forse anche omofobe, non saranno più solo reati di opinione — com’è attualmente — ma reati tout court.
In Francia qualsiasi abuso della libertà di stampa ed espressione è trattato da giudici e avvocati specializzati e quindi soggetto a particolari garanzie procedurali: la prescrizione è più breve (tre mesi anziché tre anni), non è possibile la custodia cautelare né il processo per direttissima ed è bandita qualsiasi procedura d’urgenza. I délits de presse sono giudicati dalla diciassettesima camera del Tribunale di grande istanza di Parigi.
Le pene sono pecuniarie: fino a 12mila euro per la diffamazione, che salgono a 45mila nel caso di incitamento all’odio razziale o antisemita, per cui è previsto anche fino a un anno di carcere. Le condanne ci sono, e anche dure. Qualche mese fa un’ex candidata del Front National, Anne-Sophie Leclère, è stata condannata a nove mesi di carcere per aver paragonato il ministro della Giustizia a uno scimpanzé.
Eppure secondo il governo e alcune associazioni che lottano contro l’ hate speech, l’attuale sistema giuridico non è più adatto ai nostri tempi. «Tutti ormai sono d’accordo nel dire che il razzismo non è un’opinione ma un reato. Allora perché non giudicarlo come tale?», si chiede polemicamente Alain Jakubowicz, presidente della Licra, la Lega contro il razzismo e l’antisemitismo. «La legge del 1881 è una legge di libertà, non di repressione», aggiunge Jakubowicz, strenuo promotore di una nuova giurisdizione sul tema.
Con la riforma voluta da François Hollande, l’incitamento all’odio potrebbe finire insieme ad altri reati del codice penale, come il furto di un motorino o lo stupro: così com’è già in altri paesi. Un’ipotesi che terrorizza molti avvocati, a cominciare da Richard Malka, storico legale di Charlie Hebdo. «È paradossale notare che dei giornalisti sono morti per difendere la libertà d’espressione — commenta Malka — e una delle prime misure del governo è un legge che minaccia questa libertà ». L’avvocato di Charlie è contrario alla riforma.
«Se passasse, i vignettisti del nostro settimanale sarebbero processati per le caricature su Maometto per direttissima, tra un rapinatore e uno spacciatore. È una legge fondata sull’emozione, e come tale da irresponsabili » continua l’avvocato del giornale attaccato dai terroristi. «Non risolveremo i problemi del razzismo e dell’antisemitismo — conclude Malka — attraverso leggi che non rispettano uno dei principi su cui si fonda la République».
È il grande dilemma che pone il terrorismo a ogni democrazia: proteggere se stessa ma senza snaturarsi. Censurare i predicatori dell’odio, oppure lasciarli liberi in nome di valori che loro stessi non riconoscono? Per la Francia il doppio obiettivo degli attentati di gennaio (libertà di stampa e comunità ebraica) ha amplificato un dibattito che altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dopo il 2001, hanno già dovuto affrontare.
A Parigi però gioca anche una normativa d’eccezione, rappresentata dalla famosa Chambre de la presse. «La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni», ricorda Jean-Yves Dupeux, presidente dell’associazione degli avvocati specializzati nella libertà di stampa. «La legge del 1881 è equilibrata, è ormai ben rodata», continua Dupeux.
«Il formalismo giuridico che impone permette di avere sentenze soppesate in fascicoli spesso delicati ». Tra gli oppositori c’è uno dei principi del foro, l’avvocato Henri Leclerc, presidente della Ligue des Droits de l’Homme, così come la Consulta nazionale per i diritti dell’uomo che ha emanato 15 raccomandazioni per fermare l’hate speech, ma non una riforma della legge del 1881. «Le infrazioni legate al discorso dell’odio o gli abusi della libertà d’espressione — ha spiegato un rappresentante della Consulta — presentano una specificità che non deve essere integrata nel codice penale».
Avvocati e magistrati temono che la riforma potrebbe scatenare il caos nei tribunali. Una prova generale c’è già stata con il passaggio deciso dal governo a novembre del reato di apologia del terrorismo dalla legge del 1881 al codice penale. In poche settimane, i tribunali si sono ritrovati intasati di processi per direttissima: una settantina solo tra gennaio e febbraio, dopo gli attentati.
Una “reazione isterica” del governo, ha detto il sindacato nazionale della magistratura. Non è mettendo in galera qualcuno che dice “Je suis Kouachi” che si risolve il terrorismo. Tra voglia di censura e orgoglio libertario, nel paese di Voltaire sempre meno cittadini sembrano disposti a dare la vita perché altri possano esprimere idee che non condividono.