LILIANA SEGRE NOMINATA SENATRICE A VITA A 88 ANNI – LIBERO: "NON POTEVANO PENSARCI PRIMA? LA DONNA DEPORTATA AD AUSCHWITZ DA BAMBINA È UN SIMBOLO DELLA LOTTA AL RAZZISMO DA TRENT' ANNI, RICORDARLA SOLO OGGI SA DI MANOVRA ELETTORALE. E NON PARE UN’OPERAZIONE RISPETTOSA DELLA MEMORIA. ANZI…"
-Giovanni Sallusti per Libero Quotidiano
Cominciamo con quella che è il contrario di una premessa retorica, visto che trattasi di evidenza morale e umana.
Di fronte a Liliana Segre, nominata dal presidente Mattarella senatrice a vita, vale solo il mutismo conscio della nostra inutilità piccina rispetto a quel che è stato. Risucchiata nel dramma delle leggi razziali quando aveva 8 anni, arrestata nel dicembre 1943 quando ne aveva 13, deportata il 30 gennaio 1944 dal famigerato Binario 21 della stazione Centrale di Milano verso il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, l' inferno in terra se mai è esistito.
Fu subito separata dal padre, che sarebbe morto nel lager. Anche i nonni paterni morirono ad Auschwitz. Lei fu impiegata ai lavori forzati nella fabbrica di munizioni Union, carne da macello per nutrire l' illusione del Reich di poter ancora vincere la guerra. Venne liberata l' 1 maggio 1945.
Basta la cronaca asettica, per lacerarti la mente e le viscere.
Liliana Segre è il volto e il corpo della storia quando arriva al suo punto massimo di fusione, la tragedia, e come tale un articoletto di giornale non è il suo ambiente. Come, scusate, non è detto che lo sia quella riserva di vegliardi della Repubblica, quel misto di pomposità mal riposta e commedia involontaria, che è il clubbino tutto italico dei senatori a vita. Quantomeno non così, non adesso, non con il palese intreccio tra una testimonianza altissima e le polemichette politichesi della nostra miserrima attualità.
Perché Liliana Segre è Liliana Segre da sempre, da quando gli aguzzini nazifascisti l' hanno caricata su quel treno, e pubblicamente lo è dai primi anni Novanta, quando decise di offrire il racconto del suo calvario personale e famigliare alle scuole, alla società, alla polis. E la nomina arriva solo ora, a 87 anni, dopo quasi un trentennio di attività che sarebbe offensivo conteggiare con le regole della quantità, perché contiene la stessa preziosità qualitativa che aveva al primo convegno, al primo incontro, alla prima lezione.
Non riusciamo allora a scacciare il cattivo pensiero che l' iniziativa presa da Mattarella abbia a che fare con la merce avariata che la classe dirigente di questo Paese sta tentando di spacciare all' emporio bugiardo della campagna elettorale, e che davvero col nome e la traiettoria esistenziale di Liliana Segre non ha nulla a che fare.
Stiamo parlando della propaganda ossessiva ed ossessionata sull'«onda nera», sul ritorno del fascismo, se non addirittura del nazismo, oggi, qui, nell' Italia del 2018. Il cartonato del fascismo inesistente (che dall' 1 febbraio avrà anche l' immancabile sponda artistoide e cinematografica, con quel grottesco titolo «Sono tornato» riferito al Duce), che se mischiato a chi porta incise nella pelle e nell' anima le ferite di quello vero, come Liliana Segre, da demenziale si fa offensivo.
Purtroppo, il sospetto è stato avvalorato ieri dalla cagnara social, twittarola, esternante a vario titolo, di quello scampolo di classe politica che è rimasta a sinistra. Dai massimi dirigenti alle mezze tacche, tutti a suggerire che la nomina costituisce un antidoto contro il rischio razzista e neonazi che avanza minaccioso, magari addirittura nei panni di un bonario avvocato varesino candidato alla presidenza di Regione Lombardia. E allora scusate, ma il dubbio che la cultura cattocomunista da sempre egemone quaggiù (e di cui il presidente Mattarella è oggettiva sintesi vivente) approcci la storia di Liliana Segre come ha sempre approcciato la questione ebraica (un' occasione passatista per giustificare le proprie presenti e prosaiche turbe ideologiche), peraltro mentre ignora le ragioni degli ebrei nell' attualità, si fa certezza. E non pare un' operazione rispettosa della memoria, anzi.