1. “MA COME TI È VENUTO IN MENTE DI DIRE QUELLE COSE, MA LE PENSI DAVVERO? ADESSO O SMENTISCI O SEI FUORI”. LA TELEFONATA DELLLA RAGGI A BERDINI E’ UN’ERUZIONE DI RABBIA
2. L’ASSESSORE FARFUGLIA: “IL GIORNALISTA HA TRAVISATO”. MA E’ TARDI: LA SINDACA VUOLE LA SUA TESTA A TUTTI I COSTI. A FERMARLA CI HA PENSATO GRILLO CHE NON VUOLE APRIRE UN ALTRO FRONTE IN UN MOMENTO GIA’ DELICATO PER L’AMMINISTRAZIONE GRILLINA (AUDIO)
3. VOLETE SAPERE CHI HA CONSEGNATO ROMA AI “QUATTRO AMICI AL BAR” RAGGI, FRONGIA, MARRA E ROMEO? E’ STATO LUIGINO DI MAIO, IN UNA NOTTE DI FINE ESTATE, IL 31 AGOSTO 2016
1 - VIRGINIA VOLEVA CACCIARLO MA GRILLO L' HA FRENATA "NON APRIRE UN ALTRO FRONTE"
Giovanna Vitale per “la Repubblica”
La prima telefonata arriva all'alba. Dall'altro capo del filo, Virginia Raggi è un'Erinni. «Ma come ti è venuto in mente di dire quelle cose, ma le pensi davvero?», la domanda che colpisce l'assessore all'Urbanistica come un gancio in faccia. «Adesso o smentisci o sei fuori», il senso del messaggio recapitato all'anziano professore che lei, alla vigilia del ballottaggio, si appuntò per primo sulla giacchetta da superfavorita alla poltrona di sindaco di Roma.
Paolo Berdini è mortificato. Farfuglia una spiegazione abborracciata, si giustifica sostenendo che quel colloquio è stato carpito, «il giornalista ha travisato, mettendo insieme affermazioni che avevano un significato diverso». Ma è fiato sprecato: l' ordine è chiaro, non c' è nient' altro da aggiungere.
L'ingegnere-funambolo, sette mesi vissuti sempre sul filo, un piede dentro e uno di lato, fra dimissioni annunciate e poi ritirate, capisce che stavolta non ha via di scampo.
La sua fama di «anarchico», «eretico », «irregolare» - con cui è a turno è stato definito per raccontarne il carattere fumantino e fuori dagli schemi, specie quelli grillini, lui che si è sempre professato comunista, un passato nel vecchio Pci fin giù al nuovo Pd, «ormai diventato incolore » e perciò rinnegato per la sinistra più estrema - diventa la sua condanna a morte.
L' esecuzione è pronta, dal Campidoglio si ode già stridio di ghigliottina quando lui va in radio e in tv per gridare al mondo la teoria del complotto, «quel ragazzo non lo conosco, non ci ho mai parlato, avrà contraffatto con mezzi tecnologici quanto ho detto davvero e cioè che eravamo tutti impreparati, me compreso, davanti al baratro in cui abbiamo trovato la città».
Ma non ci crede nessuno, ormai. Soprattutto Virginia Raggi. «Ha tradito la mia fiducia», ripete ai collaboratori prima di chiamare Beppe Grillo. La sindaca ha deciso: Berdini va cacciato. Il capo del Movimento però è perplesso, la invita a calmarsi: aprire un altro fronte, in un momento così, è troppo rischioso.
Un consiglio che arriva, identico, dal vice Luca Bergamo: «Aspettiamo », la placa, «ascoltiamo cosa ha da dire Paolo». Convocato alle tre del pomeriggio, insieme agli altri assessori, per la pre-giunta del mercoledì. Berdini arriva per ultimo. Colleghi e consiglieri sono già seduti nella Sala delle Bandiere. Fremono. Pieni di disappunto e d' ira. «Eccoci, siamo la corte dei miracoli», salutano in coro l' ingresso dell' urbanista. Lui sbianca. Abbassa il capo. Smentire con loro sarebbe una farsa. Non ci prova nemmeno. Gli resta solo arrampicarsi sugli specchi.
Mentre, intorno al tavolone risorgimentale, comincia il processo al "Giordano Bruno" che si farebbe bruciare piuttosto che abiurare ai suoi principi e però ora rischia di incenerire il Campidoglio.
Gliela cantano forte gli assessori presenti. «Tu non hai mai fatto gioco di squadra», «hai detto frasi orribili», «così ci fai passare tutti per inaffidabili». L' uso del plurale per dissimulare la più pesante delle accuse. Virginia Raggi è livida ma silente. Ordina di tornare al merito della riunione. «Parliamo delle cose da fare, voglio che ciascuno di voi elabori un elenco dei progetti in cantiere, da discutere ogni settimana con la maggioranza».
Il redde rationem è solo rimandato. Nel suo studio, dove alla fine si rifugiano in tre: lui, lei e il fidato vice Bergamo. Ogni discolpa è ormai consumata. «Ho fatto una stronzata », ammette l' imputato. «Ma davvero hai detto quelle cose?», torna a chiedere la sindaca. «Non in quel modo e comunque non le penso. Ti chiedo scusa. Chiedo scusa a tutti. Sono pronto a rimettere il mandato», sussurra Berdini. Raggi è glaciale. «Ricucire è impossibile. Ma abbiamo delle cose importanti da finire. Resterai sinché serve». Ovvero fino a quando non verrà individuato un sostituto e conclusa la partita sullo stadio. Il suggerimento di Grillo. Soddisfatto del verdetto.
Prima di correre al tempio di Adriano, dove Di Maio l'aspetta, c'è giusto il tempo per scrivere ai consiglieri: «Non cadete nelle polemiche, rilanciate sui temi». L'ultimo messaggio per fingere una normalità che la giunta grillina non ha trovato mai. E che l'audio diffuso sul sito della Stampa precipita di nuovo nel caos. Facendo tornare forte la tentazione di scaricare l' assessore. Subito. Rifilando a lui l'onere della recita: «Respingo la riserva della sindaca e me ne vado».
2 - COSÌ DI MAIO SIGILLÒ L'INTESA CHE HA CONSEGNATO ROMA AI "QUATTRO AMICI AL BAR"
Carlo Bonini per “la Repubblica”
Roma è stata consegnata ai «quattro amici al bar» - Virginia Raggi, Daniele Frongia, Raffaele Marra, Salvatore Romeo - in una notte di fine estate. Il 31 agosto 2016. Tra le 2 e le 4 del mattino. Quando Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, responsabile degli Enti locali del M5S e suo candidato premier, fa la sua scelta. Dà il via libera al doppio sacrificio umano - la cacciata dal Campidoglio dell'assessore al bilancio Marcello Minenna e del capo di gabinetto Carla Raineri - che ai "quattro" dà mani libere e di cui si incaricano Virginia Raggi e l' uomo, Raffaele Marra, di cui, due mesi prima, il 6 luglio, dopo un incontro alla Camera dei Deputati, lo stesso Di Maio si è fatto personalmente garante.
E' una scena madre che ricostruiscono con Repubblica tre diverse fonti qualificate. Che aiuta a capire il peso di quanto è accaduto sin lì: le nomine di Romeo e Marra in due snodi chiave del Campidoglio (Capo della segreteria, il primo. Vicecapo di gabinetto, il secondo). E quanto accadrà di lì in avanti. A cominciare dalla difesa ostinata di entrambi, contro ogni evidenza. E' il primo anello della catena di bugie, ricatti, minacce cui si impiccherà il M5S, che terrà in ostaggio la città e che documenta la posta in gioco di questa infernale partita sul Campidoglio.
E' una scena il cui protagonista - Di Maio - tenterà di ripulire da ogni traccia che porti a lui. Che lo insegue da allora come un fantasma. Che, in quel mese di agosto, lo ha già obbligato a mentire sulla iscrizione nel registro degli indagati dell' assessore all' ambiente Paola Muraro. E lo convince a dissimulare, fino alla rovinosa caduta di Raffaele Marra (arrestato il 16 dicembre per corruzione), la sostanza del rapporto tra la sindaca, Marra e Romeo.
UNA TELEFONATA DALLE CANARIE
Il 31 agosto 2016, dunque. Sappiamo già che alle 23 di quella sera il magistrato in aspettativa Carla Raineri viene convocata nell' ufficio della Sindaca che le comunica la revoca della delibera con cui è stata nominata capo di gabinetto.
L' escamotage è la sollecitazione confezionata da Marra con cui la Raggi ha chiesto un parere sulla legittimità di quella nomina all' Autorità Nazionale Anticorruzione di Raffaele Cantone. E il cui responso è arrivato quel pomeriggio, con la conclusione di illegittimità dell' atto di nomina. La Raineri è furiosa e avvisa Minenna, che l' ha voluta capo di gabinetto al posto dell' uomo cui la Raggi aveva promesso quella poltrona, Daniele Frongia.
Minenna è in vacanza alle isole Canarie. Non da solo. Con alcuni amici dei Cinque Stelle. E decide di buttare giù dal letto Luigi Di Maio. Sa infatti che solo lui può fermare la mano della Raggi. Minenna gli spiega che quanto sta accadendo consegnerà la città a una coppia a dir poco opaca - Marra, Romeo - e porterà a fondo l' avventura dei Cinque Stelle. Non sa, Minenna, che sta parlando con la persona sbagliata. Con l' uomo che di quella coppia si è fatto appunto garante.
Di Maio, non a caso, si barcamena. Dà a intendere di essere sorpreso da quella mossa della sindaca. Per poi concludere, con uno scambio di sms e quando ormai si sono fatte quasi le 4 del mattino, che il dado è tratto. Che indietro non si torna. Poco prima delle 5, la Raggi posta dunque su Facebook la decisione. La Raineri si dimette. Poche ore dopo, 1 settembre, lo farà Minenna. Con una mossa, tuttavia. Che deve lasciare traccia del movente della defenestrazione della Raineri e delle sue dimissioni.
E' una lettera protocollata con cui comunica alla sindaca e alla Giunta «che devono intendersi revocati tutti i voti favorevoli da me manifestati a tutte le assunzioni effettuate da Roma Capitale ai sensi dell' articolo 90 Tuel (la norma di legge sugli enti locali)». In particolare, aggiunge, «quella di Salvatore Romeo», per la sua «intrinseca illegittimità », poiché «il suo status di dipendente pubblico già assunto a tempo indeterminato dell' amministrazione capitolina, non è stato reso noto nelle motivazioni della delibera».
MOVENTE E MANDANTI
La lettera prefigura dunque l' abuso di ufficio che alla Raggi e Romeo verrà contestato dalla Procura sei mesi dopo. Soprattutto, documenta che Raineri e Minenna pagano la guerra dichiarata a Raffaele Marra e Salvatore Romeo, capo della segreteria della Raggi. Pagano le osservazioni che hanno mosso sulla legittimità della sua nomina. E una violenta discussione, l' ultima, che entrambi hanno avuto con la Raggi il 24 agosto, quando sono tornati a chiedere alla sindaca che si liberi di entrambi.
Almeno una fonte, che non trova però ulteriori conferme, indica in quella giornata del 24 agosto un nuovo contatto tra Marra e Di Maio (che ha sempre smentito di aver incontrato Marra più di una volta). In ogni caso, è un fatto che sia Minnena che la Raineri non abbiano ancora chiari i contorni della tonnara in cui sono finiti.
Hanno infatti la certezza di essere stati vittima di una manovra di palazzo di cui Di Maio è il puparo quando è troppo tardi. Quando è cominciata una nuova partita. Quella in cui sono i "vincitori" a dare le carte. Che richiede una "contro narrazione" per la quale torna utile il Fatto quotidiano. Nella ricostruzione che, il 9 settembre, il quotidiano, a firma Marco Travaglio e Valeria Pacelli, offre degli ottanta giorni di caos e veleni che hanno segnato l' esordio della Giunta, ecco infatti Marra tratteggiato come un integerrimo grand commis a caccia di sprechi.
Forte della fiducia della Guardia di Finanza e nemico giurato di Minenna e Raineri perché si è permesso di mettere un tetto alle loro remunerazioni, suscitandone la stizza. Ecco insomma una banda di onesti assediata dagli appetiti dei "poteri forti" e da una stampa che gli fa da salmeria. Ossessivamente additata al ludibrio di lì in avanti. E di cui, a frittata fatta, Di Maio chiederà conto all' Ordine dei giornalisti con motivazioni "copia e incolla".
L' SMS DI MINENNA: "DI MAIO SAPEVA"
È noto come è andata. Marra a Regina Coeli per corruzione. Romeo e Raggi in Procura per abuso di ufficio. Inedito, al contrario, l' sms con cui, in quei giorni di settembre, Minenna comunica alla Raineri cosa ha finalmente compreso: «La storia di Di Maio (il riferimento è all' incontro di luglio con Marra ndr.) è assolutamente vera e lo sai avendola vissuta quasi in diretta. Così come sai che misi a parte anche la Taverna. Ho sms con entrambi e fui scaricato. D' altronde, erano i referenti di Direttorio e mini Direttorio per Roma. Quindi erano loro l' ancora di salvezza. Sono certo che Di Maio sapeva tutta la storia di Cantone (il parere chiesto all' Anac ndr.) ben prima di noi. Si capì benissimo dall' interazione».