DI MAIO, IL DEMOCRISTIANO A CRISTALLI LIQUIDI - AMMIRARE LUIGINO ACCANTO A TABACCI, DOPO AVERLO VISTO INNEGGIARE AI GILET GIALLI, E’ UNA GODURIA PER GLI APPASSIONATI DEL TRASFORMISMO ITALIANO - “LA STAMPA” LO FULMINA: “DI MAIO HA RINNEGATO TANTO, TROPPO, TUTTO, SENZA PAGARE UN PREZZO POLITICO. È RIMASTO SEMPRE AL GOVERNO, INDOSSANDO OGNI VOLTA LA MODA DEL MOMENTO. ORA È L'AGENDA DRAGHI, IL CENTROSINISTRA, L'ODIATO, UN TEMPO, "PARTITO DI BIBBIANO". DI MAIO SI SENTE TROPPO GIOVANE PER MORIRE POLITICAMENTE DIETRO ALLE REGOLE DEI MANDATI DI GRILLO”
-Ilario Lombardo per “la Stampa”
Uno vale uno, no? Luigi Di Maio è l'Uno. Un numero infinitamente ripetibile che replica su stesso chi gli si pone accanto. Uno per tre fa sempre tre. Di Maio accanto a Grillo fa Grillo. Di Maio accanto a Draghi fa Draghi. Di Maio accanto a Tabacci fa Tabacci. In matematica è chiamato elemento neutrale, «un elemento che non modifica nulla se posto sia a sinistra sia a destra in un'operazione».
Uno vale uno: la parabola di Di Maio compie il destino del comandamento fondativo del M5S. Adattabile all'infinito, un numero capace di mimetizzarsi, a destra e a sinistra, perché moltiplicato per altri numeri nega sempre se stesso. Fino all'abiura del precetto biblico, pronunciata a giugno, all'indomani della scissione: «Uno vale uno non vuol dire uno vale l'altro».
Solo così puoi arrivare al ripudio del passato, con la radicalità esibita alla presentazione del suo nuovo soggetto politico: «Impegno Civico non parla agli estremisti, a chi vuole sfasciare tutto, a chi fonda la propria politica sui no. Saremo moderati». Sul palco, Di Maio nega Di Maio, ancora una volta: il capo politico degli estremisti del 2018, che volevano sfasciare tutto, della politica dei no, diventa il suo contrario. Di Maio torna a indossare la cravatta del leader che tolse il giorno in cui svestì i panni di capo politico del M5S.
E sulle note di Heroes di David Bowie svela il simbolo di Impegno Civico. Un'ape arancione e il nome del leader sotto, che scatenano l'ironia degli avversari («Vola vola vola l'Ape Maio un grillo canterino s' è svegliato. L'importante è un fiore da trovare» twitta tra tanti Giorgio Mulè di Forza Italia) per l'effetto involontario che ai creativi del logo non doveva sfuggire. L'ape è simbolo di operosità, amata da Napoleone a tal punto da portarla sul mantello e da imporla ovunque nell'araldica imperiale.
Nell'hangar delle Officine Farneto, in sottofondo, Bowie canta. «I, I will be king». ..«Io sarò re». Re, Di Maio, è tornato, di un piccolissimo regno. L'ape era anche nel logo di Api di Francesco Rutelli, l'Alleanza che si scisse dal Pd di cui era cofondatore, guarda un po', Bruno Tabacci. Alessandro Di Battista sbagliò solo l'erede Dc quando profetizzò che nelle sue metamorfosi l'ex amico di populismo Di Maio sarebbe finito a imitare Clemente Mastella. Invece è arrivato, puntuale, Tabacci, l'alchimista del centro sempre pronto a condividere il simbolo di Centro democratico, come un indiano la propria tenda.
In Italia solo chi muore democristiano impara a risorgere.
Di Maio ha capito lo spirito animale della politica. È già in Pirandello: «Muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo, e senza ricordi». La menzogna è una verità dimenticata, in un Paese che perdona tanto, una Repubblica fondata sul trasformismo. «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file e accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?» si chiedeva Agostino Depretis nel 1882. Destra e sinistra, uno vale l'altro. Di Maio ha portato agli estremi la frontiera del carattere nazionale, sin da quando teorizzò l'idea di un partito come ago della bilancia. Che sia con Lega o Pd, è lo stesso.
Di Maio ha rinnegato tanto, troppo, tutto, senza pagare un prezzo politico. È rimasto sempre al governo, indossando convintamente ogni volta la moda del momento. Ora è l'Agenda Draghi, il centrosinistra, l'odiato, un tempo, "partito di Bibbiano". Non a caso, subito dopo la presentazione del partito, va a palazzo Chigi a cercare la benedizione del premier. Di Maio si sente troppo giovane per morire politicamente dietro alle regole dei mandati di Grillo.
Quando ha capito che il M5S non gli avrebbe garantito più un futuro è andato via. Ma forse nessuno ha segnato quanto lui la legislatura che va a morire. Uno che a 36 anni è stato tre volte ministro, agli Esteri con una guerra in Europa, uno che ha abolito la povertà (cit.), uno che è salito sulla ruspa dei gilet gialli e ora guarda al riformismo di Emmanuel Macron, uno che aveva come consigliere Manlio Di Stefano, accolto con onore dal putiniano Russia Unita, ed è diventato fortissimamente atlantista, uno che ha chiesto l'impeachment del presidente della Repubblica e ora ascolta mite i consigli del segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti, uno che cavalcava le inchieste dei pm e poi ha espresso pentimento per la foga giustizialista, uno che è stato tutto questo in soli 5 anni - dicono amici e avversari - come fa a fare a meno della politica?
E non è solo la solita storia del bibitaro del San Paolo che non ha un lavoro a cui tornare. La politica è il suo lavoro. Come per tanti. Ma esattamente quello che non doveva essere secondo il grillino del passato. Tra la platea affollata dei tanti deputati che lo hanno seguito, la canzone di Bowie scivola verso la strofa finale: «Noi non siamo niente e niente ci aiuterà, forse stiamo mentendo».