MEMORIE DI UN GRANDE DEMOCRISTIANO - RAI, IRI, FINMECCANICA: FABIANO FABIANI È STATO UNA DELLE ECCELLENZE DELLA CLASSE DIRIGENTE DELLA DC (IERI SCHIFATA, OGGI RIMPIANTA) - “IL FASCISMO LO VIVEVO COME UNA COSA CHE C'ERA, NORMALE. NON CONOSCEVAMO ALTRO, LA DEMOCRAZIA NON L'AVEVAMO MAI VISTA” – “OGGI IL CONSIGLIO CHE MI SENTO DI DARE ALL'ITALIA È DI NON AVERE PAURA DEL PUBBLICO, NON CEDERE ALLE IDEOLOGIE LIBERISTE” – LA GRANDE AMICIZIA CON ETTORE SCOLA…

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Fabiano Fabiani

Walter Veltroni per il “Corriere della Sera”

 

Fabiano Fabiani è stato uno dei testimoni e dei protagonisti - Rai, Iri, Finmeccanica - della ripresa dell' Italia dopo la guerra. Il suo racconto e il suo punto di vista possono essere utili, in questo momento di passaggio della storia italiana.

 

Mi racconti la tua infanzia durante il fascismo?

«Sono nato alle ore 13.00 di venerdì 17 maggio del 1930. Ho abitato i primi anni della mia vita in una piccola frazione di Tarquinia, Le Saline. Mio papà era un impiegato. Quello che mi ricordo bene, a proposito dei cambiamenti, è mia nonna che con il cesto sulla testa andava alla lavanderia comune delle Saline a lavare i panni di casa.

Lilli e Fabiano Fabiani, 1956, alle nozze di Ettore Scola

 

Qualche anno dopo mia madre metteva i panni dentro una macchina strana e nuova, la lavatrice. In mezzo la guerra e poi la ricostruzione».

 

Il fascismo come lo sentivi, allora?

«Era lontano. Lo sentivo come la normalità. Mio papà aveva fatto la marcia su Roma, ma non era un fascista fanatico, non ne parlava quasi mai. Vivevamo una vita familiare abbastanza tranquilla. Il fascismo lo vivevo come una cosa che c' era, normale. Non conoscevamo altro, la democrazia non l' avevamo mai vista. Comportava degli obblighi: il sabato la divisa da balilla, la ginnastica e le adunate. E poi ascoltare con grande attenzione i discorsi da piazza Venezia, almeno fino alla dichiarazione della guerra».

Walter Veltoni e Fabiano Fabiani

 

Chi era Mussolini, per te bambino?

«Era il capo, il capo del Paese. Il duce indiscusso, era quello che ci comandava, che ci guidava e ci portava in Africa orientale, lo dovevamo rispettare e anche qualcosa di più, perché era il capo di tutti. Non era solo il capo del governo, ma il capo del Paese. Così era percepito nell' infanzia, almeno da me».

 

Dove eri il giorno della dichiarazione di guerra del 10 giugno del '40?

«A Saline di Volterra. Ricordo benissimo la piazzetta delle Saline in cui ascoltai il discorso.

paolo cirino pomicino fabiano fabiani

Mi dava l' impressione che fosse una guerra che stava per finire. Incominciava, ma stava per finire. Un mio cugino militare disse: "Vedrai che non faccio in tempo a partire, che mi fanno tornare a casa". Ma non fu così. Ti ricordi la frase di Mussolini? "Voglio qualche decina di morti sul tavolo della pace". Non fu così. La storia è stata diversa, gli italiani hanno sofferto tanto, tutti».

fabiani e scola

 

Che impressione ti fece Roma la prima volta? Venivi da Saline di Volterra.

marc'aurelio

«Arrivo a Roma nel '41. Avevo fatto la prima media a Volterra dove il mio professore di Lettere era Carlo Cassola. Il primo ricordo di Roma è la scuola. La professoressa mi disse "tu sei nuovo", la classe naturalmente era già formata perché avevano già fatto la prima. "Siediti lì, che c' è un posto libero".

 

 

Fabiano Fabiani Ciampi

Accanto a me c' era un bambino, si chiamava Ettore Scola. L' ho conosciuto quel giorno. E siamo stati insieme tutti gli anni di liceo e poi tutti gli anni della vita. Ettore si fece male alla schiena, credo cadendo da un albero, e per i primi mesi della terza media non venne a lezione. Tutti i pomeriggi andavo da lui, a via Galilei 45, gli raccontavo quello che era successo la mattina e facevamo insieme i compiti. Per molti mesi, fino a che lui non guarì. Questa amicizia, nata come compagni di banco, è durata fino a che lui non morì».

 

Cossiga e Fabiano Fabiani

Fabiano Fabiani

L' otto settembre?

«Mio papà l' estate andava a Tarquinia in trasferta a dirigere la raccolta del sale, quindi l' 8 settembre ci prese lì. Lui lavorava ai Monopoli ed ebbe l' ordine di recarsi a Venezia per arruolarsi nella Repubblica sociale. Naturalmente si rifiutò. Avevamo una stanza nella torre, a Tarquinia ci sono le torri medievali, e ogni volta che c' era un allarme, una sirena, o vedevamo una pattuglia in giro ci nascondevamo lì.

 

Eravamo preoccupati per mio padre, perché se lo arrestavano, sarebbe finito in un campo di concentramento in Germania. La sera veniva a giocare a bridge l' ex segretario del fascio che era amico di papà e il chirurgo Manuelli. Il quarto ero io, un bambino.

MUSSOLINI SI AFFACCIA DAL BALCONE DI PALAZZO VENEZIA

Grande fu la sorpresa quando, dopo la guerra, alle elezioni costituenti vedemmo eletto il chirurgo Manuelli nelle liste del Partito Comunista. Questo voleva dire che lui era il capo della Resistenza in quei mesi e che veniva a giocare con l' ex segretario del fascio solo come copertura».

 

La caduta di Mussolini?

«Mi ricordo, ero a Bagnoregio il 25 luglio e al solito parlammo al telefono con papà. Lui non aveva saputo niente, si era recato a piazza Mastai in ufficio e l' usciere non lo aveva fatto entrare. Lo aveva cacciato via perché lui, ignaro, portava sulla giacca il distintivo del partito nazionale fascista. Poi seppe cosa era accaduto e ricominciò il suo lavoro, tranquillo».

 

Eri contento?

 

Scalfari con Lilli e Fabiano Fabiani

«Vedemmo tutte quelle cose solo nei film Luce. Ero un bambino, non mi aspettavo quello che stava succedendo. E così anche della guerra: non sapevamo che andava male. Quindi fui molto colpito dalla violenza e dalla rapidità con cui tutti i simboli venivano abbattuti, stritolati, distrutti».

 

Il primo tuo impatto con l' antifascismo e il pensiero democratico quale è stato?

«Passano gli anni del liceo e poi l' iscrizione all' università. Esisteva nel '53 a Roma la fondazione Premi Roma, che stava a piazza Barberini. Si occupava di premi letterari, ma anche cinematografici. Il segretario generale era Sangiorgi. Non so se fosse redattore dell' Osservatore Romano o bibliotecario della Biblioteca Vaticana, ma certo era grande amico di De Gasperi. Fu candidato alle elezioni e io gli feci da autista. Giravamo e lui mi diceva sempre "Piano nelle curve"...».

 

alcide de gasperi gioca a bocce con il nipote in trentino

Una frase che ti è restata dentro come metodo...

«Lui era un antifascista e questo fu il mio primo incontro con una persona culturalmente preparata e antifascista. Ricordo anche un piccolo episodio: il comizio finale di De Gasperi fu a piazza del Popolo. In fondo alla scaletta di accesso al palco De Gasperi lo vide, gli venne incontro e gli chiese come andavano le cose. Sangiorgi gli rispose: "Stavano andando bene, poi negli ultimi giorni ci sono stati degli interventi in denaro" e De Gasperi replicò: "Purtroppo questa brutta abitudine è molto diffusa..."».

fabiano fabiani e moglie

 

Facciamo un passo indietro, la fine della guerra e la liberazione come li hai vissuti?

«Quando ci fu lo sbarco di Anzio papà decise che, dalla torre di Tarquinia, dovevamo trasferirci alla casa di Roma. Facemmo questo viaggio io, mia madre e mio padre nascosti nel vagone di un camion che trasportava carne. La liberazione la vissi dalla finestra sulla strada di via Napoleone III.

 

Fabiano Fabiani

Vidi i soldati tedeschi che, uno per uno, si allontanavano. Poi passò qualche milite della PAI, Polizia Africa Italiana, e dopo un po' sfrecciò una strana macchina con sopra un tricolore. Andava di corsa su e giù per la strada. Era una jeep e poco dopo arrivarono, incolonnati come i tedeschi che se ne erano andati, i soldati americani.

GIULIO ANDREOTTI E ALCIDE DE GASPERI

 

 

Tutti quelli che stavano alla finestra corsero in strada abbracciandosi. Le signorine Muccio, che abitavano accanto a noi, scesero per baciare i soldati e mia madre fu molto critica di questo eccessivo slancio. Poi ricordo la prima messa a Santa Maria Maggiore, uno o due giorni dopo la Liberazione. Ci cambiammo, ci vestimmo a festa come si faceva la domenica, e andammo in chiesa. Stavamo per sentire la prima messa da liberati. La gente era diversa dai giorni precedenti. Era sparita la preoccupazione e c' era la gioia della libertà, come se fosse finito un incubo e iniziasse una nuova vita».

 

Gli americani?

fabiano fabiani

«A papà, siccome aveva fatto la marcia su Roma, fecero il processo di epurazione, dal quale fu assolto. Ma era stimato, e così lo mandarono, e noi lo seguimmo, a Tarquinia per la raccolta del sale. Era estate e lì a Saline c' erano gli americani. Lì li ho visti e ho conosciuto quei barattoli grossi con dentro la pasta, che era fantastica».

alcide de gasperi con francesca romani 2

 

Ricordi quegli anni come un tempo di sogni, di speranze?

«Ettore cominciò a lavorare al Marc' Aurelio , faceva il "battutista", uno di quelli che inventano le battute che poi vengono disegnate dai grandi.

Bernabei

Lui poi è stato anche un gran disegnatore, ma negli anni successivi. Portò anche me al Marc' Aurelio e naturalmente ebbi meno successo di lui. Però quelle poche battute che venivano accettate mi davano una certa indipendenza finanziaria.

 

Insomma avevo diciassette, diciotto anni ed ero autonomo, o quasi. Poi Ettore comprò la prima Topolino e con quella giravamo Roma. Non erano tanti i giovani che se lo potevano permettere. Sono stati gli anni del divertimento, nella mia vita. A casa di Gigliola, la futura moglie di Ettore, io ho visto per la prima volta un televisore. La tv sarebbe stata tanta parte della mia vita».

 

Come immaginavi il tuo futuro allora?

fabiano fabiani con la moglie lilli foto di bacco

«Finita la scuola papà volle che io mi iscrivessi ad Ingegneria. Durò tre mesi. Non sapevo disegnare, cambiai e mi iscrissi a Legge. Però cominciai a lavorare: il Marc' Aurelio , qualche film in cui ero assistente, e i quotidiani in cui facevo il vice della critica cinematografica. Papà di questa mia vita poco studiosa, già in qualche modo autonoma, ma incerta, non era felice.

 

Un giorno mi portò dal suo direttore generale che mi disse: "Faccia la domanda per entrare alla Rai". Seguii il consiglio, poi ci furono le elezioni nel '53 e cacciarono il direttore generale Sernesi, accusato di aver fatto parlare i comunisti nel "Convegno dei cinque". Passato un anno e mezzo arrivò un' inattesa lettera dalla Rai che mi convocava per la prova scritta. Andai al Palazzo degli Esami a viale Trastevere. Passò molto altro tempo e mi scrissero: "Lei è stato ammesso agli orali".

fabiano fabiani e moglie

 

Attenzione, erano esami seri. C' era Umberto Segre come esaminatore, Mario Apollonio, Elio Vittorini aveva letto gli scritti. Vinsi il concorso. Mi sarei dovuto presentare il 7 gennaio alla Rai di Corso Sempione a Milano. Carletto Mazzarella mi disse: "Sarà una tragedia, c' è sempre la nebbia, non ci andare, rinuncia". Figurati se potevo rinunciare! Mio padre mi trovò da dormire da un sarto.

 

Cominciò questo benedetto corso di formazione, che durò fino a maggio. Venivano tutti i massimi dirigenti a far lezione, ci spiegavano il loro punto di vista sulla televisione del futuro. Finita l' illustrazione di questi direttori, il capocorso Emilio Gennarini, un antifascista, cattolico di sinistra amico di Dossetti ci spiegava invece che quello che avevano detto i dirigenti non era la visione corretta, perché non dovevamo fare una televisione piccolo borghese, ma una televisione nazionale».

 

ugo gregoretti 12

 

E così comincia la tua lunga avventura in Rai...

«Il 15 maggio del 1955 mi presentai a via Asiago. Io avevo spinto per andare al telegiornale perché avevo scoperto che i giornalisti non dovevano timbrare il cartellino, mentre tutti gli altri colleghi lo dovevano timbrare. Andammo a fare i giornalisti Emanuele Milano, Beppe Lisi, Giovanni Salvi e io. In una stanza incontrammo Ugo Gregoretti. Ugo era stato il segretario di Sernesi e l' addetto a scrivere le lettere di rimprovero ai dirigenti che avevano commesso qualche errore.

 

Lo sguardo vispo di Fabiano Fabiani su Melania Rizzoli

Il telegiornale in quell' epoca usciva il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì e il venerdì, il sabato facevano il riassunto delle puntate precedenti e la domenica era festa. Ho cominciato a realizzare i documentari sull' Italia che cambiava. Facemmo una lunga inchiesta sulla riforma agraria e un documentario sull' Appennino bolognese che veniva spopolato dai romagnoli e ripopolato dai meridionali. Coerentemente con il corso, insomma, ideavamo programmi sul cambiamento veloce e radicale del Paese».

 

brando giordani

Come racconteresti la sensazione di rinascita che c' era: le autostrade la televisione, la scolarizzazione? Può esserci utile per oggi?

«Ora la sensazione di nuovo inizio me la fornisce il senso civico dei cittadini. Questo è l' unico Paese dove ti puoi trovare a cena con italiani che parlano male dell' Italia. Non mi è mai accaduto, pranzando a New York o a Parigi, che cittadini di quei Paesi parlassero del proprio Paese così criticamente come fanno gli italiani.

vietnam 7

 

Oggi l' autocontrollo dimostrato è quello che mi dà la fiducia nella possibilità che il Paese si riprenda. Noi siamo un Paese con delle grandi forze, con delle qualità, delle possibilità. Io sono fiducioso sulla ripresa, questa fiducia me la conforta la disciplina dei miei concittadini. Assomiglia molto a quello che vedevo allora: tutti avevano un grande entusiasmo, dopo le pene sofferte della guerra.

eco furio colombo

 

Pensavamo che tutto si sarebbe ripreso e tutto sarebbe stato migliore. È l' immagine che ti ho detto all' inizio: mia nonna con i panni da lavare al lavatoio e dopo la guerra mia madre davanti alla lavatrice».

 

Tu diventi direttore del telegiornale nella seconda metà degli anni Sessanta. Si dice che tu sia stato mandato via per la posizione del telegiornale sul Vietnam...

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«Noi tenevamo una linea sul Vietnam che non era quella che piaceva al presidente della Repubblica, invece il governo e soprattutto il Vaticano erano più prudenti e più critici. Noi, soprattutto con TV7, eravamo contro questa guerra. I problemi nacquero con il presidente della Repubblica. Una volta vide un servizio a TV7 mentre aveva ospite a Courmayeur il consigliere dell' ambasciata americana. I due si scandalizzarono perché era il famoso servizio di Furio Colombo che parlava dei morti con il Napalm. Un servizio bellissimo».

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Mi racconti il tuo incontro con Dossetti?

«Fu Gennarini a farmelo conoscere. Dossetti mi chiese di prendere l' aspettativa e di aiutarlo per la campagna elettorale a Bologna. Il mio ruolo era quello di fare il «giornale parlato» in piazza, cioè comunicare con l' amplificatore la posizione nostra sui vari temi del giorno. Ricordo solo un limite che Dossetti mi fissò: non si doveva definire Dozza, il sindaco comunista, come avversario, ma come il nostro competitore».

 

Hai consigli da dare a questa Italia che si trova in un momento di rinascita analogo a quello del dopoguerra?

giuseppe dossetti

«L' Iri degli anni sessanta fu protagonista nell' acciaio, costruì le autostrade, unificò le reti telefoniche. Fu soggetto decisivo della modernizzazione italiana. Grazie all' intervento pubblico il Paese fece in poco tempo uno straordinario percorso di crescita. Ecco, il consiglio che mi sento di dare all' Italia in questo nuovo passaggio storico è questo: non avere paura del pubblico, non cedere alle ideologie liberiste».