1. NON È VERO CHE IL CAVALIERE CONDANNATO HA DECISO CON I CATA-FALCHI SANTADECHE’-VERDINI-GHEDINI. LA CRISI DEL GOVERNINO L’HA DECISA TUTTO DA SOLO, GIOVEDÌ SCORSO: QUANDO È ARRIVATO L’AUT-AUT DI LETTANIPOTE (“BASTA CON I RICATTI”), LO SCHIAVO DI DUDÙ E DELLA PASCALINA HA CAPITO CHE IL PD NON AVREBBE ACCETTATO IL LODO VIOLANTE 2. LO SFOGO: “ORA PENSANO DI GETTARMI IN PASTO AI PM CON LA DECADENZA DA SENATORE. BENE, VEDIAMO SE HANNO IL CORAGGIO DI ARRESTARE IL CAPO DELL’OPPOSIZIONE” 3. IL COLLE SA BENISSIMO CHE NON È PRONTO UN NUOVO GOVERNO CON I ‘’RIBELLI’’ PDL E DI GRILLO, PIÙ SCIOLTA CIVICA; SOLO IL PREMIER NIPOTE SI ILLUDE. E SE SI VA A VOTARE IL 27 NOVEMBRE, IL PD NON FA IN TEMPO A FARE LE PRIMARIE. E ALLORA CHI CANDIDA CONTRO IL BANANA? ENRICUCCIO LETTA O MATTEUCCIO RENZI, CUPERLO O EPIFANI? 4. IL CAPO DELLO STATO IERI A POGGIOREALI HA PARLATO DI AMNISTIA FACENDO FINTA DI VOLERLO AIUTARE, MENTRE IL CAINANO L’HA INTERPRETATA COME UNA PRESA PER I FONDELLI
1. DAGOREPORT
Fantastici i giornali di oggi. Non sanno nulla. A) Non è vero che il Cav condannato ha deciso con i falchi. Ha deciso tutto da solo, giovedì scorso: quando è arrivato l'aut-aut durissimo di Enrico Letta, lo schiavo di Dudù ha capito che il Pd non avrebbe accettato il lodo Violante (rinviare la legge Severino alla Corte Costituzionale sulla questione dello retroattività). B) Il Colle sa benissimo che non è pronto un nuovo governo con i ribelli Pdl e di Grillo, più Sciolta Civica; solo Letta si illude.
2. UN PRANZO DI SOLI FALCHI DECIDE LA ROTTURA - L'IRA CON PREMIER E COLLE. AD ARCORE NESSUN MINISTRO. E ALFANO: "OBBEDISCO, MA DISSENTO"
Amedeo La Mattina per La Stampa
«Ora vediamo se hanno il coraggio di arrestare il capo dell'opposizione». Alla fine, come era prevedibile, Berlusconi è tornato a essere il caimano che dall'opposizione intende sferrare una campagna elettorale micidiale. Ora bisognerà vedere quanti pezzi perderà in questa ennesima traversata nel deserto. Ha bruciato tutti i ponti e si è lanciato armi in resta contro tutti. Non ha sentito ragioni da parte di nessuno.
Non ha ascoltato Gianni Letta né Fedele Confalonieri e nemmeno Angelino Alfano che ha cercato in tutti i modi di convincerlo a non aprire la crisi di governo. Ma il Cavaliere ha insistito sulle dimissioni dei ministri Pdl, si è infuriato, ha usato il lanciafiamme contro Enrico Letta che lo ha sfidato, «si è permesso di porre degli aut aut irricevibili», di ricattarlo con l'aumento dell'Iva, di separare la vita del governo dal voto in giunta sulla decadenza.
Arrivando perfino ad annunciare, attraverso Dario Franceschini, che su questo tema chiederà la fiducia al Senato. Cannonate contro il Capo dello Stato che ieri ha parlato di amnistia facendo finta di volerlo aiutare, mentre l'ex premier l'ha interpretata come una presa per i fondelli. Per i ministri del Pdl invece poteva essere uno spiraglio per una soluzione del problema di Berlusconi. Hanno chiesto lumi all'avvocato Ghedini e si sono sentiti rispondere che quella di Napolitano era una «scatola vuota».
Esausto e senza più argomenti, Alfano ha alzato le braccia e come Garibaldi ha detto obbedisco. «Presidente, se hai deciso così, mi dimetto ma rimango convinto che sia una scelta sbagliata». Hanno obbedito anche gli altri ministri Lupi, Lorenzin, Di Girolamo e Quagliariello dopo la nota in cui Berlusconi chiedeva loro di valutare l'opportunità di dimettersi. Ma già lui aveva deciso senza consultarli: si sono trovati le loro dimissioni sulle agenzie.
Così Alfano e i suoi colleghi riottosi e sgomenti hanno dovuto ingoiare il rospo. L'unica cosa che hanno rifiutato è stata quella di sottoscrivere un comunicato durissimo contro Letta scritto da altri (sembra da Capezzone) e che loro avrebbero dovuto firmare senza battere ciglio. Invece almeno un po' il ciglio l'hanno battuto. I ministri hanno scritto di loro pugno il comunicato con un finale da colombe spennate: «Rassegniamo le dimissioni anche al fine di consentire, sin dai prossimi giorni, un più schietto confronto e una più chiara assunzione di responsabilità».
E dire che per tutto il giorno, avevano sparso in lungo e in largo indiscrezioni su una possibile mediazione con Napolitano e Letta. Telefonate ad Arcore per capire se il capo si era ammorbidito e lui che non faceva filtrare nulla. Li teneva all'oscuro di quanto si stava consumando a Villa San Martino.
La decisione mortale per il governo Letta è stata presa ieri a Villa San Martino durante una serie di riunioni alle quali hanno partecipato solo falchi. Ad Arcore c'erano Bondi, Verdini, Santanché, Ghedini. Poi è arrivata anche Marina Berlusconi, che ha ascoltato le ragioni del padre che inveiva contro Enrico Letta e il Pd che non hanno mai voluto la pacificazione, non gli hanno mai espresso alcuna solidarietà per i guai giudiziari, che adesso hanno fatto aumentare l'Iva buttando la colpa su di lui.
E poi Napolitano che non gli ha dato la grazia e voleva che il Cavaliere si umiliasse chiedendola, accettando una condanna assurda. «Ora pensano di gettarmi in pasto ai pm con la decadenza da senatore. Bene, vediamo se hanno il coraggio di arrestare il capo dell'opposizione». Marina ha ascoltato il padre e alla fine si è schierato con lui.
Già, adesso il Pdl si prepara a essere una forza di opposizione. Berlusconi farà di tutto per evitare un Letta bis e ottenere le elezioni anticipate. Ma nel Pd, nell'Udc e dentro Scelta civica è scattata l'operazione «responsabili»: strappare un pezzo del gruppo Pdl al Senato a favore della fiducia a Letta.
Nel partito c'è grande agitazione e sconcerto per una decisione calata dall'alto, presa con quella che viene chiamata dalle colombe la «trimurti Verdini, Santanchè, Bondi». Ci ha messo di suo anche Ghedini che ha scritto la memoria di Berlusconi alla giunta, chiedendo le dimissioni dei commissari favorevoli alla decadenza. Una notizia che annunciava la tempesta perfetta.
3. COSI' GHEDINI LO HA CONVINTO
Francesco Verderami per il Corriere della Sera
È il blitzkrieg, è uno contro tutti, ed è una guerra che non contempla prigionieri. Si vedrà se quella di Berlusconi è stata davvero la mossa della disperazione, «un suicidio» come dicono nel suo stesso partito, o una scelta meditata, coltivata da tempo, e messa in atto dopo aver colto «l'opportunità» che il premier a suo modo di vedere gli ha offerto, bloccando il provvedimento sull'Iva. Di certo la decisione del Cavaliere di far saltare il banco e di ritirare la delegazione del Pdl dal governo è una scommessa giocata sul ritorno immediato alle urne.
È una manovra che rischia di avere effetti devastanti non solo sui destini del Paese ma anche del suo stesso movimento. Quale sia l'arma segreta non si sa, anche perché stavolta l'uomo che per venti anni è stato il leader incontrastato del centrodestra non potrà guidare il suo esercito sul campo di battaglia elettorale. Eppure Berlusconi decide di avviare il conflitto, e questa è la storia del giorno più lungo della Seconda Repubblica.
Ore 10 Nella villa di Arcore il Cavaliere riceve alcuni dirigenti Mediaset. Nella sua residenza si trovano già la figlia Marina e Bondi, con loro discute della situazione politica. L'informativa notturna di Alfano sul Consiglio dei ministri e la lettura dei giornali gli hanno confermato ciò che già sapeva: il premier e il capo dello Stato «vogliono mettermi spalle al muro» dopo l'offensiva delle dimissioni in massa dei suoi parlamentari. Il giorno prima, al vertice del Pdl, aveva letto una sua considerazione con la quale spiegava di non avere alcuna intenzione di aprire la crisi di governo.
L'accelerazione di palazzo Chigi e la richiesta di un chiarimento davanti alle Camere lo pongono dinnanzi a un bivio: votare la fiducia, senza però avere più alcun potere contrattuale, né sul versante politico né su quello giudiziario, oppure cercare attraverso un'operazione bizantina di attaccare l'esecutivo, con i suoi ministri seduti al banco del governo. «I miei elettori non capirebbero».
Squilla il telefono, in linea c'è Cicchitto. «Silvio, devi fare attenzione. Rischi di apparire come il nemico del popolo». Berlusconi ripete di non volere la crisi e chiede al dirigente del suo partito di preparargli una nota, deciderà poi se farla propria con un comunicato o di trasformarla in un videomessaggio. A Roma intanto vanno avanti le trattative tra Pd e Pdl per scongiurare la rottura. L'attivismo è frenetico, Brunetta si consulta con rappresentanti del governo e con gli «alleati», e c'è ottimismo su una soluzione positiva.
Ore 12 Ad Arcore arrivano Verdini e Santanchè, formalmente per discutere della manifestazione da indire per il 4 ottobre in concomitanza con il voto della Giunta di palazzo Madama sulla decadenza del Cavaliere. Il coordinatore del Pdl ha un conto aperto con Berlusconi, perché convinto che non ci sia altra strada della crisi. Come lui la responsabile dell'organizzazione, che il giorno prima aveva tribolato sapendo dell'esito del vertice a cui non aveva preso parte.
I falchi tornano a premere sul leader, comprendendo di trovare terreno fertile alle loro argomentazioni. Ma serve un innesco per dar fuoco alle polveri, ed è l'avvocato-deputato Ghedini a farlo. Ostile al governo Letta fin dalla sua nascita («sarà la tua rovina, Silvio»), torna a insistere sulla necessità di rompere gli indugi, usa per grimaldello la situazione giudiziaria del Cavaliere, ritorna sull'inconsistente aiuto giunto dal Quirinale ai suoi guai, e gli prospetta «nel giro di venti giorni» un finale drammatico: «Farai la fine di Silvio Pellico». Quella parole incendiano il Cavaliere, la brace torna a farsi fiamma, ed è allora che viene messo a punto il blitzkrieg .
Le linee nemiche hanno lasciato un varco in cui infilarsi: la decisione di non varare il decreto economico e di lasciar partire l'aumento dell'Iva era stato un modo per Enrico Letta di vendicarsi con il Pdl dell'«umiliazione» subita con l'annuncio delle dimissioni in massa proprio mentre si trovava all'Onu. «Lui umiliato?», tuona Berlusconi: «Io fui umiliato nel '94, quando mi mandarono l'avviso di garanzia mentre presiedevo il vertice di Napoli». Per il leader del centrodestra è giunto il momento di preparare la dichiarazione di guerra: «Chiamatemi Capezzone». La missione è ancora top secret. Persino Confalonieri e Gianni Letta sono ignari di quanto sta accadendo, e come loro anche il segretario del Pdl non sa nulla.
Ore 16 Alfano - che si trova nella sua abitazione a Roma - riceve una chiamata che lo gela per i contenuti e per i modi. «Apriamo la crisi, Angelino. Ho da leggerti il comunicato che voi ministri dovrete fare vostro». Ma non c'è Berlusconi all'altro capo del telefono, bensì Ghedini, a cui il Cavaliere ha affidato il compito di avvisarlo.
È chiaro il messaggio del leader verso il vicepremier, che ascolta la lettura della nota redatta dall'ex segretario radicale: un documento violentissimo nei riguardi del presidente del Consiglio, che evoca - come nella migliore tradizione stalinista - una implicita richiesta di autoaccusa della compagine ministeriale del Pdl. Alfano, stordito e addolorato, respinge il comunicato e non solo perché «ho lavorato fino ad oggi con Enrico nel governo», ma anche perché non intende politicamente suicidarsi. Si apre una trattativa che dura più di un'ora, e tocca a Bondi la stesura di una nuova bozza, quella definitiva.
Ore 18 Berlusconi dirama la dichiarazione di guerra. A stretto giro i suoi ministri si dimettono. Per Alfano c'è solo il tempo di preavvisare il premier, che trasecola: «Ma se stavamo cercando un compromesso...». Anche Napolitano viene avvisato prima che il comunicato sia reso pubblico e non capisce, visto che solo cinque minuti prima Brunetta lo aveva informato che la trattativa era a buon punto. «Non c'è razionalità in questa vicenda», commenta il capo dello Stato: «Se alla dimensione politica si privilegia la dimensione umana, non si può costruire più nulla. Sono dispiaciuto, anche per Berlusconi, ma tutto ciò con la politica non c'entra nulla».
Nel frattempo Alfano si mette alla ricerca degli altri ministri. Si trovano subito la De Girolamo e la Lorenzin, che sta passeggiando in riva al mare. Quagliariello è in attesa della partita del Napoli e resta di sale: «Sono pronto a dimettermi ma non sono d'accordo. Perché questo gesto non serve né al Paese né al centrodestra né a Berlusconi. Così ci mettiamo contro quel mondo che vogliamo rappresentare».
Resta da trovare Lupi, e si fatica. Il titolare dello Sviluppo economico è a messa con Carron, il leader spirituale di Cl. La scorta gli porta il cellulare in chiesa. «Maurizio ti devi dimettere», e in sottofondo sale il canto dell'Alleluja. «Maurizio, Berlusconi ha aperto la crisi», e dalla cornetta si sente il sacerdote che invita i fedeli a scambiarsi il segno della pace.
La pace non c'è più nel Pdl, che ribolle come una tonnara. Il rischio di una spaccatura è elevato e - chissà - forse messo nel conto dallo stesso Berlusconi, che un anno fa coltivò l'idea dello spacchettamento del partito. «Un partito in mano ai falchi non è il nostro partito», attacca infatti uno dei ministri, che si appresta a chiedere una «verifica interna».
Ma a chi, al Cavaliere? Sembra la vigilia dell'otto settembre. Mentre a Milano Verdini e Santanchè festeggiano, a Roma la compagine di governo appena dimessasi va a casa di Alfano, che intanto ha avuto modo di sentire - brevemente - il «dottore». L'ormai ex vice premier, verso cui i suoi stessi amici muovono critiche per non aver vigilato abbastanza sul partito, si trova ora tra Scilla e Cariddi: tra Berlusconi, che comunque continua a volere accanto a sé «Angelino», e le sirene centriste che confidano cambi rotta. La guerra lampo è iniziata, lascerà molti cadaveri sul campo.