LA NUOVA UCRAINA SARÀ TAIWAN - PECHINO VUOLE RIPRENDERSI L'ISOLA, TAIPEI SI STA ARMANDO E GLI USA SONO PRONTI A DIFENDERLA - IN GIOCO CI SONO IL DOMINIO DEL PACIFICO E QUESTIONI ECONOMICHE - MILENA GABANELLI: "L’ISOLA È DI GRAN LUNGA IL MAGGIOR PRODUTTORE MONDIALE DI MICROCHIP, INDISPENSABILI IN GRAN PARTE DELL’INDUSTRIA NON SOLO QUELLA DEI COMPUTER E DEI TELEFONI, MA IN QUALSIASI PRODOTTO CHE ABBIA UN CONTENUTO ELETTRONICO E DIGITALE. CIÒ NE FA UN PAESE CHIAVE NELL’ECONOMIA DEL MONDO..." - VIDEO
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Danilo Taino e Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera”
Nell’agenda della politica internazionale Taiwan è ormai seconda solo all’Ucraina. E all’Ucraina è in qualche modo legata, possibile vittima di aggressione da parte di una potenza ben più forte della Russia: la Cina.
Intanto a portare solidarietà all’isola vanno e vengono membri del Parlamento europeo: deputati svedesi, politici australiani, funzionari lituani. In aprile, a Taipei è atterrata Nancy Pelosi: la prima visita di uno speaker della Camera dei Rappresentanti americana in 25 anni. A fine maggio, a incontrare la presidente Tsai Ing-wen, una nuova delegazione di senatori da Washington.
Le incursioni aeree
In questo 2022 ad affollare i cieli e i pensieri dell’isola – distante, nel punto più vicino, solo 130 chilometri dalle coste della Repubblica Popolare Cinese – c’è anche un altro genere di visitatori.
Gli aerei militari di Pechino hanno intensificato come mai prima i voli nella Zona di difesa aerea di Taiwan (Adiz, Air Defence Identification Zone): 465 incursioni tra gennaio e maggio, il 50% in più di quelle effettuate nello stesso periodo del 2021. Caccia da combattimento, bombardieri, aerei da ricognizione che entrano nell’area sopra al mare a Sudovest dell’Isola dove le autorità di Taipei chiedono agli aerei che sorvolano di identificarsi.
Come nascono le due Cine
La crisi inizia nel 1949, quando i nazionalisti del Kuomintang di Chiang Kai-shek, sconfitti dai comunisti di Mao, si rifugiano nell’isola che allora portava il nome di Formosa e fondano la Repubblica di Cina.
A livello internazionale il Paese è riconosciuto come unico rappresentante della Cina, con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nel 1971, però, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite espelle Taiwan e riconosce la Repubblica Popolare di Cina (Pechino) come «la sola legittima rappresentante della Cina alle Nazioni Unite».
Con ciò anche il potere di veto – cioè il seggio permanente – nel Consiglio di Sicurezza passa a Pechino. È l’inizio dell’isolamento internazionale di Taiwan che, nel tempo, si intensifica su pressione continua della Cina Popolare con l’esclusione dell’isola da tutte le agenzie dell’Onu.
Taiwan fuori dall’Onu
Gli Stati Uniti il 1° gennaio 1979 riconoscono la Repubblica Popolare di Cina (e quindi l’esistenza di una sola Cina) e stabiliscono con Pechino relazioni diplomatiche. Al tempo stesso, con il Taiwan Relations Act, riconoscono le autorità governative di Taiwan.
Un’ambiguità strategica mai risolta. Negli anni i Paesi che mantengono rapporti diplomatici ufficiali con Taiwan si riducono via via perché osteggiati da Pechino. Oggi a riconoscerne la sovranità sono 14: Vaticano, Guatemala, Honduras, Saint Vincent and Grenadines, Tuvalu, Haiti, Saint Kitts and Nevis, Paraguay, Eswatini (ex Swaziland), Nauru, Saint Lucia, Belize, Isole Marshall e Palau.
Nella realtà ben 59 Paesi hanno stabilito con Taipei relazioni non ufficiali: Stati Uniti, Unione europea, Giappone, Russia, Regno Unito. Taiwan è infatti uno dei centri più importanti nelle catene di produzione internazionali e non si può fingere che non esista.
Una delle migliori democrazie
Negli anni Ottanta Taiwan inizia un processo di uscita dalla dittatura e di costruzione di una solida democrazia, tant’è che oggi è unanimemente considerata fra le dieci migliori democrazie del mondo.
In questi quaranta anni Washington la sostiene dal punto di vista economico, politico e militare. Resta il nodo dell’ambiguità: gli Usa riconoscono che la Cina è una sola, la Repubblica Popolare che siede all’Onu, ma non dicono se in caso di attacco di Pechino a Taiwan entrerebbero in conflitto a fianco dell’isola. L’invasione russa dell’Ucraina sembra modificare la posizione americana e, ora, rischia di diventare il prossimo punto di scontro tra potenze.
Xi vuole riprendersela
I comunisti cinesi hanno dichiarato sin dal 1949 di volere riportare sotto il controllo di Pechino quella che considerano una provincia ribelle. Per Xi Jinping, che ha fatto cambiare la costituzione, non c’è limite al numero di mandati e quest’autunno il Congresso del partito lo riconfermerà quasi certamente per un terzo quinquennio. La questione Taiwan, che nel confronto con gli Usa è sullo sfondo da anni, ora è tutta nelle sue mani: conquistarla significherebbe dare un colpo letale alle ambizioni globali di Washington.
Gli Usa pronti a difenderla
Nelle settimane scorse Joe Biden ha confermato che in caso di attacco cinese gli Stati Uniti difenderebbero l’autonomia di Taiwan. La risposta è arrivata nei giorni scorsi dal ministro delle Difesa cinese, generale Wei Fenghe: «Se qualcuno osa puntare alla secessione di Taiwan dalla Cina, non esiteremo a combattere – ha detto –. Combatteremo a tutti i costi. E combatteremo fino alla fine. Questa è la sola scelta per la Cina».
Guerra, insomma. La presidente taiwanese Tsai aveva già spiegato che Taipei non dichiarerà l’indipendenza formale «dal momento che siamo indipendenti di fatto». E un sondaggio condotto a fine marzo ha stabilito che l’88,6% dei taiwanesi non ne vuole sapere di tornare a far parte della Repubblica Popolare.
È una situazione che se sfuggisse di mano – e le possibilità sono abbastanza alte – potrebbe terminare nello scontro definitivo militare tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia nell’Indo-Pacifico e in prospettiva nel mondo intero.
Cosa c’è in gioco?
Davvero molto. Per gli Stati Uniti la sfida è infatti decisiva. Nel Pacifico sono la forza dominante sin dalla fine della Seconda guerra mondiale e hanno garantito la libertà di navigazione nelle acque dell’Oceano.
Una politica che ha permesso lo sviluppo di molti Paesi asiatici: dalla stessa Cina a Taiwan, Corea del Sud, Malesia, Thailandia e più recentemente il Vietnam. In più Washington ha lanciato negli ultimi anni la strategia dell’«Indo-Pacifico Libero e Aperto», al fine di organizzare buona parte dei Paesi che si affacciano sui due oceani su posizioni di contrasto all’influenza di Pechino. Se la Cina prendesse Taiwan con la forza, sarebbe la fine dell’egemonia statunitense sui mari.
Il centro dei semiconduttori
Taiwan, poi, non è solo importante dal punto di vista geopolitico. È una tappa centrale delle catene internazionali di fornitura e di creazione del valore. Con meno di 24 milioni di abitanti è attorno alle posizioni 20-22 nella classifica delle economie stilata in base al Pil: 841 miliardi di dollari nel 2022, secondo le stime del Fondo monetario internazionale. Con un Pil pro capite, a parità di potere d’acquisto, pari a oltre 65 mila dollari l’anno (l’Italia è sotto ai 50 mila).
L’isola è di gran lunga il maggior produttore mondiale di microchip, indispensabili in gran parte dell’industria non solo quella dei computer e dei telefoni, ma in qualsiasi prodotto che abbia un contenuto elettronico e digitale. La stima è che Taiwan produca il 60% dei microchip realizzati nel mondo, con la sua Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) che da sola copre più di metà del mercato globale.
Ciò ne fa un Paese chiave nell’economia del mondo. Esporta anche acciaio e yacht, ha una flotta di pescherecci tra le maggiori al mondo, Google ha scelto la contea di Changhua, proprio di fronte alle coste della Cina, per il suo data center maggiore d’Asia.
Guerra o blocco dei porti?
Fino a poco tempo fa la propaganda cinese nell’isola proponeva ai taiwanesi una soluzione stile Hong Kong: «Un paese, due sistemi». Xi ha però messo una pietra sopra ai «due sistemi» della ex colonia britannica e, dunque, questa soluzione per Taipei è svanita. Sul modo di prendere Taiwan in Cina il dibattito è sempre più intenso.
Per ora, dicono gli osservatori, Xi e il partito non hanno ancora deciso a favore dell’azione militare, obiettivamente rischiosa. Una variante potrebbe essere il blocco dei porti e degli aeroporti dell’isola. Aggressione meno violenta, ma che creerebbe problemi enormi per le forniture globali di microchip.
Gli Stati Uniti si preparano, per parte loro, ai diversi scenari. Nel marzo del 2021 l’ammiraglio americano (oggi in pensione) che ha comandato le forze Usa nell’Indo-Pacifico fino all’anno scorso, Phil Davidson, ha detto al Comitato per i servizi armati del Senato di Washington di ritenere che un attacco cinese a Taiwan si potrebbe «manifestare nei prossimi sei anni». Ad accelerare i tempi ci ha pensato Putin invadendo l’Ucraina.
Il test è l’Ucraina
Come vanno le cose a Kyiv è materia di grande studio a Pechino come a Taipei: osservare il genere di difesa che stanno utilizzando gli ucraini è una lezione per l’eventuale attaccante e per chi si deve difendere. Il governo e le forze armate di Taiwan, in stretto contatto con gli americani, stanno modificando le strategie di difesa, soprattutto in direzione di una strategia detta del porcospino, cioè unità militari decentrate e armate con mezzi sofisticati per respingere un invasore molto più potente.
Certamente per la Cina la guerra è un test per capire fin dove arriva la volontà degli Stati Uniti e dei Paesi democratici di opporsi alle aggressioni e alle rivendicazioni territoriali dei regimi autoritari.