PUBBLICITÀ LEGALE, GIORNALI LEGATI - RENZI PROROGA IL REGALINO CHE ASSEGNA AGLI EDITORI MILIONI DI EURO (PUBBLICI E PRIVATI). POI NON CHIEDETEVI PERCHÉ I GIORNALONI NON LO ATTACCHINO
1. RENZI TIENE BUONI I GIORNALi: PROROGATO IL REGALINO MILIONARIO
Carlo Di Foggia per il “Fatto Quotidiano”
E sono due. A Matteo Renzi proprio non va di avere rogne con gli editori, meglio tenerli sotto scacco. Due righe inserite nella legge delega per la riforma del codice degli appalti e i giornali continueranno a vedersi assegnare gli oltre 100 milioni e spiccioli che il premier aveva provato a sfilargli cancellando l’obbligo per gli enti pubblici di pubblicare bandi e avvisi di gara sui quotidiani.
Andiamo con ordine. Renzi l’aveva promesso a metà aprile 2014, durante la conferenza stampa per il decreto Irpef (quello dei famosi 80 euro): gli avvisi che segnalano i bandi di gara verranno pubblicati solo sui siti web delle amministrazioni appaltanti (e in Gazzetta Ufficiale), e così - spiegò il premier illustrando l’apposita slide - lo Stato “risparmierà 120 milioni di euro l’anno”. Apriti cielo. Editoriali allarmati, le proteste della Fieg - la federazione degli editori - e un pressing sotterraneo convinsero Palazzo Chigi a tornare sui suoi passi, rinviando il passaggio all’online al 2016.
Per la verità, tra gli addetti ai lavori nessuno credeva che il premier sarebbe andato davvero fino in fondo, sfidando gli editori. In molti lo interpretarono alla stregua di un’intimidazione ai grandi giornali, che da questo capitolo incamerano introiti notevoli. Come che sia, la partita venne rinviata al primo gennaio 2016 con un emendamento in extremis, che ha trasformato il tutto in una spada di Damocle sui conti degli editori. Almeno così sembrava. Invece non cambierà nulla anche dopo la fine dell’anno grazie a un emendamento alla legge delega approvato in Commissione lavori pubblici al Senato (arriverà in aula la prossima settimana), e firmato dai relatori Stefano Esposito (Pd) - che lo ha difeso ha spada tratta anche in Bilancio - e Lionello Marco Pagnoncelli (Fi).
Il testo impone al governo di rivedere la disciplina “in modo da fare ricorso principalmente a strumenti di pubblicità di tipo informatico”, ma in ogni caso “di prevedere la pubblicazione degli stessi avvisi e bandi in almeno due quotidiani nazionali e in almeno due quotidiani locali, con spese a carico del vincitore della gara”. Quello che avviene tuttora. Una boccata d’ossigeno per i bilanci in sofferenza delle concessionarie di pubblicità. Ad aprile 2014 il governo quantificò la spesa per le casse pubbliche in 120 milioni di euro.
Cifra poi ridimensionata dalla Ragioneria dello Stato che nella relazione tecnica parlò di 75 milioni visto che, grazie a un decreto del governo Monti, a partire dal gennaio 2013 i costi di pubblicazione vengono rimborsati alle stazioni appaltanti dai vincitori delle gare. La cifra, in realtà sarebbe ancora più bassa, ma molti appalti sono stati banditi prima del termine fissato dalla norma Monti. Un elemento rimarcato negli accorati appelli a mezzo stampa. Tradotto: a che serve il web, tanto pagano i privati.
Nel gergo tecnico si chiama “pubblicità legale” e in questi anni di crisi è la tipologia che è calata meno. Se l’inserzionista è lo Stato, infatti, i super-sconti che le concessionarie sono costrette ad applicare ai privati non servono. Tanto i costi vengono scaricati sugli aggiudicatari e chi vince una gara da milioni di euro non si lamenta certo per qualche migliaia speso in pubblicità.
In pratica, una tassa occulta, che però per i piccoli appalti, soprattutto se poco appetibili, rischia di essere inserita nella base d’asta, facendo rientrare dalla finestra l’addebito a carico dello Stato che sembrava uscito dalla porta. Nel 2014 le concessionarie hanno incassato dalla “pubblicità di servizio” circa 110 milioni di euro (erano 86 nel 2013). Quella riferita agli avvisi legali è un po’ più bassa perché nel conto totale vengono considerati altri tipi di pubblicità “istituzionale”: decisioni giudiziarie, aste (che continuano a essere pubblicate sui giornali locali nonostante i tribunali mettano tutto online), iniziative turistiche, culturali etc.
La cifra esatta di tutte le tipologie di “aiuti” statali all’editoria è difficile da calcolare, ma di certo il finanziamento pubblico diretto (circa 50 milioni nel 2013) è solo un fetta di una torta più grossa. Ad avvantaggiarsene sono soprattutto i grandi gruppi, quelli in grado di avere una diffusione capillare grazie ai quotidiani locali. Ad aprile 2014, quando Renzi minacciò sfracelli, oltre agli editoriali, perfino una Regione, la Puglia, chiese al premier di cambiare idea.
La partita è stata gestita dal fido Luca Lotti, sottosegretario a Palazzo Chigi con delega all’editoria e vero uomo ombra del premier, che per diversi mesi ha avuto in mano una formidabile arma di pressione sui giornali. Sullo sfondo, la sorte di molte testate e centinaia di lavoratori. Eppure già una legge del 2009 stabilì che, dal gennaio 2010, gli obblighi di pubblicità legale dovessero essere “assolti dal web”. La protesta degli editori - secondo cui solo l’un per cento di chi partecipa alle gare le consulta sul web - è riuscita a spostare la partita fino a oggi. E oltre.
2. ECCO IL PENSIERINO DI RENZI E LOTTI AGLI EDITORI DI CARTA
Michele Arnese per www.formiche.net
Ecco il pensierino di Renzi e Lotti agli editori di cartaI fatti, sovente, dicono più di mille analisi. Così, per catalogare come “aria fritta” le vagonate di editoriali che negli ultimi decenni hanno campeggiato sulle prime pagine dei quotidiani di carta in cui si chiedevano tagli alla spesa pubblica, riduzioni di agevolazioni statali più o meno dirette a settori economici e la fine di soldi pubblici garantiti da leggi, basta – appunto – un fatto. L’ennesimo sulla stessa questione, visto che Formiche.net sta seguendo da mesi il tema con una serie di articoli, approfondimenti e commenti.
La questione è la seguente. C’è una legge che obbliga amministrazioni ed enti statali a pubblicare sui giornali di carta avvisi e bandi di gare e concorsi. Chiamasi pubblicità legale. Una sinecura per circa 100 milioni di euro (ma le stime non sono concordi) a beneficio degli editori e dei giornali di carta. La fetta maggiore della torta va ai maggiori quotidiani nazionali e la fetta minore ai giornali locali.
Matteo Renzi, nel corso della conferenza stampa di presentazione del decreto sul bonus di 80 euro (era il 18 aprile 2014), disse con tanto di slide che per coprire in parte il bonus lo Stato “risparmierà 120 milioni di euro l’anno” rottamando l’obbligo di avvisi e bandi sui giornali. Come? Con la pubblicazione solo sui siti web delle amministrazioni appaltanti e in Gazzetta Ufficiale.
Poi, come è stato raccontato da Formiche.net, per la pressione della Fieg e la cortese disponibilità di Palazzo Chigi il passaggio all’on line e il superamento dell’obbligo su carta fu rinviato al 2016.
Ora, come informa oggi il Fatto Quotidiano, “non cambierà nulla anche dopo la fine dell’anno grazie a un emendamento in extremis”. Emendamento alla legge delega sugli appalti approvata in commissione Lavori pubblici al Senato e firmato in maniera bipartisan dai relatori Stefano Esposito (Pd) e Lionello Pagnoncelli (Forza Italia).Da un lato il testo obbliga il governo a rivedere la normativa “in modo da fare ricorso principalmente a strumenti di pubblicità di tipo informatico”, dall’altro prevede “la pubblicazione degli stessi avvisi e bandi in almeno due quotidiani nazionali e in almeno due quotidiani locali”.
Un emendamento che fa tutti felici, evidentemente. Gli editori che annaspano, Palazzo Chigi che gongola per il regalino concesso (a buon rendere e a futura memoria), la FIEG che può portare a casa un risultato di breve termine e un po’ miope senza sforzarsi troppo di guardare oltre l’orticello (che si va sempre più rimpicciolendo).
Poi magari, com’è successo con l’Ingegner Carlo De Benedetti – che per anni ha sbraitato contro Google e ieri ha firmato tramite la Manzoni un accordo per la pubblicità digitale proprio con Google – ci si ravvederà. Sperando che non sia troppo tardi per poter leggere altri pensosi e colti editoriali contro lo statalismo che alimenta settori economici e aziende poco dedite all’innovazione.