Francesco Bei e Goffredo De Marchis per “La Repubblica”
«L’onere di fornirci un nome spetta a Renzi», ripete Berlusconi. «È Renzi che deve fare la prima mossa», concorda Alfano. Una responsabilità di cui il premier sente il peso e che oggi, in Direzione, vuole cominciare a condividere con il suo partito. La minoranza Pd gli chiederà non uno «schema», non un «metodo », ma subito qualcosa di più: l’identikit del futuro capo dello Stato. Ed è su questo che si lavora a palazzo Chigi. Trovare un candidato che superi la prova dei veti reciproci, dei ricatti delle correnti, delle antiche rivalità ormai stratificate da anni.
La lista del premier è divisa in blocchi. E il punto di partenza, necessariamente, sono gli ex leader del centrosinistra. Personalità forti, con un seguito nella base, e una caratteristica in comune: «Si ritengono — ripete da giorni il segretario ai suoi collaboratori -, anche legittimamente per carità, candidati di diritto ». In quel blocco ci sono Romano Prodi, Piero Fassino, Dario Franceschini, Walter Veltroni, Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani.
In corsa lo sono tutti, anche quelli che si schermiscono. Ma agli occhi di Renzi, che guarda alla storia delle elezioni per il Quirinale, se si esclude Giuseppe Saragat nel ‘64, mai nessun segretario di partito si è insediato nel palazzo dei Papi. Troppo ingombranti le loro personalità, troppo difficile farli accettare sia dagli alleati che dai rivali interni. Con il rischio di spaccare i gruppi Pd senza attrarre nuovi voti dalle opposizioni. «E adesso serve uno che facilita l’intesa».
Semmai lo schema renziano ripete quello che portò Napolitano al Colle nel 2006: un politico puro ma pescato tra i dirigenti - in primo luogo ex Ds - mai arrivati al vertice del loro partito o scelto tra le riserve della Repubblica. È un profilo che oggi ricalca molto quello di Sergio Mattarella. Ai suoi il premier non dice che sarà lui il prescelto ma ammette che l’ex ministro, oggi giudice costituzionale, «ha tutte le qualità necessarie».
È stato alla Difesa durante le guerre balcaniche, quando l’Italia partecipò in maniera sofferta ai bombardamenti della Nato sulla Serbia. È stato vicepresidente Consiglio nel governo D’Alema, con cui ha ottimi rapporti. Ma più di tutto conta il precedente di due anni fa: era il primo nome della rosa che Bersani presentò a Berlusconi (gli altri due erano Marini e Amato). Ovvero era il candidato ufficiale della «Ditta». Il Cavaliere allora non pose veti, preferendolo persino ad Amato. Poi si andò su Marini, con gli esiti che tutti ricordano.
MASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMAN
Oggi Mattarella ritorna anche nelle discussioni della minoranza Pd.
«Sarebbe un presidente che può tenere unito il partito», ammettono i bersaniani. Ma naturalmente i dissidenti aspettano che sia il segretario a fare la proposta. Per questo, per evitare trappole e non solo quelle interne, Renzi ha cambiato tattica. «Votare scheda bianca nei primi tre scrutini è troppo pericoloso, ci esponiamo ai giochetti di Sel, dei grillini e di tutti i gufi sparsi in parlamento. Troveremo un candidato di bandiera».
matteo renzi pier carlo padoan
Come si faceva nella prima Repubblica. Il premier non lo dice ma è Prodi il nome che teme gli sia gettato tra i piedi nelle prime votazioni. Un candidato capace di catalizzare sia i voti dei cinquestelle, di Sel, della minoranza Pd e, probabilmente dei ribelli forzisti. «I grillini — rivela Arturo Scotto, capogruppo vendoliano — stanno ragionando su questo, forse stavolta si svegliano».
Nella lista di Renzi c’è anche un altro gruppo, importante di papabili, specie se la crisi finanziaria dovesse riaccendersi. Sono i candidati «graditi a Bruxelles », quelli che offrono più garanzie internazionali ma non interne. Tra di loro c’è Giuliano Amato, ma soprattutto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Anche alcuni ministri come Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti andrebbero bene per le Cancellerie. Ma il premier ha già deciso: «Resteranno entrambi ai loro posti».
Se il Pd è il fuoco dell’attenzione di Renzi, Lotti e Guerini, da ieri anche la situazione interna a Forza Italia viene monitorata da vicino. Quanto accaduto a Montecitorio, con il capogruppo forzista Brunetta che si è messo di traverso rispetto al cammino della riforma costituzionale, ha confermato a palazzo Chigi quanto sia ormai «friabile » il patto del Nazareno. Perché, al di là della volontà dell’ex Cavaliere, «Berlusconi non è in grado di reggere il suo partito. Brunetta è una scheggia impazzita ».
L’incidente della Camera è stato al centro di una serie di riunioni e telefonate che il premier ha avuto lungo tutto il pomeriggio. Contatti che sono ruotati intorno alle riforme, al cammino dell’Italicum e alla partita del Quirinale. Da Angelino Alfano al capogruppo dem Roberto Speranza, fino al capogruppo Zanda e al senatore Chiti.