1. IN UNA SOLA NOTTE, IL BULLETTO DI RIGNANO HA TRASFORMATO IL PD NEL “PARTITO DI RENZI”
2. COME? HA GARANTITO AI SUOI PAGGETTI IL 90% DEI POSTI SICURI, COSI’ SE IL PD DOVESSE SCENDERE SOTTO IL 25% NON RENDERA' CONTO A NESSUNO E FARA' IL DUCETTO SULLE MACERIE
3. ORLANDO E EMILIANO (MA ANCHE FRANCESCHNI) SONO STATI LIQUIDATI CON LE BRICIOLE
4. IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA HA ANCHE PENSATO DI LASCIARE IL PD E FARSI CANDIDARE DALLA BONINO. AL NAZARENO C’ERA CHI URLAVA (“CI HA IMBROGLIATO”), QUALCUNO PIANGEVA
5. MORALE DELLA FAVA: RENZI HA SVUOTATO IL PARTITO DA OGNI DISSIDENTE. COMANDA LUI...
1 - NOTTE TRA URLA E PIANTI NASCE IL PDR DI RENZI E SI RISCHIA LA SCISSIONE
Fabio Martini per “la Stampa”
Tra urla e pianti, nella lunga e patetica notte consumata al Nazareno, sede del Pd, è diventato più chiaro quel che accadde 11 mesi fa, quando l'ala sinistra di Bersani e D' Alema lasciò il partito. Allora Matteo Renzi non fece nulla per impedire la scissione, perché già aveva in mente quel che ha messo in pratica nelle ultime 48 ore: la «normalizzazione» dei futuri gruppi parlamentari del Pd.
I numeri hanno una loro eloquenza. Alle Primarie di maggio che lo avevano incoronato segretario, Matteo Renzi aveva ottenuto il 69,2% dei consensi popolari, ma ieri notte quando la direzione del Pd si è riunita per l' okay alle liste, quasi il 90 per cento dei posti «sicuri» appartenevano all' area del leader.
Le minoranze congressuali (Orlando ed Emiliano) sono state strette all'angolo: avranno un manipolo di parlamentari, così come li avranno gli alleati più riottosi del segretario (Franceschini), ma si tratta di rappresentanze frammentate, piccole percentuali, gruppi destinati all' irrilevanza, quando arriverà l'ora delle grandi scelte. Una «libanizzazione» del dissenso interno che tornerà utile fra 40 giorni.
Dopo le elezioni del 4 marzo incombono decisioni decisive nella vita del Pd e in quella personale di Renzi. Se il partito dovesse restare sotto il minimo storico, il 25,4% raggiunto nel 2013 da Bersani, potrebbe aprirsi un processo al leader e per Renzi disporre di una pattuglia parlamentare ad alta fedeltà rappresenta un'assicurazione sulla vita. E gruppi renziani serviranno anche davanti a scenari meno drammatici ma potenzialmente divisivi: quale governo? Quale maggioranza? Quale presidente del Consiglio?
Naturalmente quando si fanno le liste per le elezioni più che ai massimi sistemi, i notabili di partito guardano ad interessi più prosaici. E nella giornata di ieri gli sherpa di Renzi hanno tirato la corda in modo così teso che ad un certo punto, senza che la notizia trapelasse, Andrea Orlando è stato costretto ad accarezzare un'idea clamorosa: lasciare il partito e trovare accoglienza elettorale nella lista «+Europa» di Emma Bonino. Uno degli amici del Guardasigilli ha fatto un sondaggio preliminare e non impegnativo ma poi l'ipotesi - che poteva diventare dirompente - è stata lasciata cadere.
Almeno per ora. È stata davvero una giornata di passione quella che si è consumata al piano nobile del Nazareno. L'orario di inizio dei lavori della Direzione è slittato per ben tre volte, dalle iniziali 10,30 si è via via andati sino alle 22,30: uno scivolamento di dodici ore, quasi un record. E a forza di rinvii l'«assedio» a Matteo Renzi si è fatto assillante: lo guatavano amici, nemici, alleati, semi-alleati.
Qualcuno urlando («ci ha imbrogliato»), qualcuno piangendo. Un giovane democratico confida di aver visto Debora Serracchiani con gli occhi lucidi, ma chissà se era lei, chissà cosa è vero, o verosimile nel racconto di una delle giornate umanamente più intense nella storia del Pd.
Lui, Matteo Renzi, ad un certo punto ha staccato il cellulare, per ore non ha risposto più agli sms, ha scritto e cancellato nomi di candidati assieme al suo amico Luca Lotti. Un assedio anche umano, come racconta lo stesso Renzi: «E' una disperazione far fuori 150 uscenti... C' è quello che ti dice, ho il mutuo da pagare, laltro che ti fa sapere che gli manca una legislatura per la pensione, un altro che accampa un buon motivo....».
Certo, nella grande «mattanza» che ha accompagnato la febbrile fattura delle liste del Pd c' è stato anche un coté patetico. Ma il grande sospetto dei non-renziani è che, con la scusa del dimagrimento che doveva investire tutte le «aree» interne del Pd, il leader ne stesse approfittando per aumentare il proprio peso specifico, per dare un' accelerata a quel progetto di trasformazione del Pd in «PdR», quel «Partito di Renzi» che è la sintesi un po' grossolana ma preferita dai detrattori del leader.
I conti si potranno fare soltanto quando le liste saranno definitivamente vistate e approvate, ma ieri sera quando si è aperta la Direzione del Pd chiamata al formale via libera, i pesi interni erano ridistribuiti, con una presenza massiccia dell'area Renzi. Alle Primarie quell'area aveva conquistato il 69,2% dei consensi, contro il 20% di Andrea Orlando e il 10% di Emiliano: dei 200 posti "sicuri" (tra listini e collegi), quasi il 90% andranno a candidati vicini al segretario. In questo «correntone» di maggioranza, il 70-72% dei parlamentari sarebbero renziani doc, l' 8-10% amici di Martina e Orfini, il 5-7% amici di Franceschini. Alle minoranze restererebbe il restante 10% .
2 - RINVII E LITI, ALTA TENSIONE DENTRO IL PD ORLANDO A RENZI: SE TAGLI I MIEI, NON CORRO IO
Maria Teresa Meli per il “Corriere della Sera”
«Non possiamo non dare segnali di rinnovamento»: è questa la frase che Matteo Renzi non si stanca di ripetere da qualche giorno in qua. E la ripete anche prima dell' ennesimo slittamento a tarda sera della direzione del Pd sulle liste. E dopo la scelta di rinviare anche la presentazione della candidata Maria Elena Boschi in Alto Adige. È la frase che nessuno nel Pd vuole sentire, perché viene tradotta così a chi presenta richieste e proposte: «Ci vogliono nomi nuovi». Ergo: cambia le tue liste.
Se la sente ripetere Andrea Orlando quando porta il suo elenco al segretario. Renzi non apprezza tutti i nomi e lo dice al Guardasigilli: «Dopo le elezioni dovremo ricostruire il nuovo Pd. Quindi dovremo dare spazio ai quarantenni, ai professionisti, ai nuovi, anche voi dovreste presentare degli altri nomi». Tradotto: Martella, Damiano e Logiudice non sono in lista. La stessa identica frase sul rinnovamento se la sente ripetere Dario Franceschini.
Che ha un approccio ben più pragmatico di quello di Orlando: si piazza nella stanza di Renzi e non molla l'osso. Per entrambi - Orlando e Franceschini - viene utilizzata la stessa frase: «Dobbiamo intercettare il nuovo». Il ministro dei Beni culturali media e cerca di strappare più di quanto il segretario gli voglia dare. Renzi infatti ha riservato solo una cinquantina di posti a tutte le correnti, eccezion fatta per la sua.
Dunque, sono cinquanta i posti che il leader del Partito democratico vuole attribuire a tutte le componenti, di maggioranza e di minoranza. Pochi? Molti? È un conto che viene fatto su 200 seggi possibili. Si basa su un sondaggio che dà il Partito democratico al 23,2 per cento. Insomma i numeri sono risicati. E soprattutto per seggi a disposizione sono pochi, troppo pochi, per le correnti ma il segretario la butta giù dura. Sa che a notte dovrà mediare, però non vuole abbassare l' asticella prima del tempo. E a tarda ora certifica: «Non ci sarà condivisine totale».
Orlando a tu per tu lo ha minacciato: «Matteo, scusa ma io piuttosto che fare fuori i miei, non mi candido». Più chiaro di così. Ma, di fronte alle proteste del Guardasigilli, Matteo Renzi non ha mosso un ciglio e ha replicato con queste parole: «Veramente ti vuoi prendere la responsabilità di far vedere che il Pd non ha gente nuova?». Morale della favola, dopo quel non facile e alquanto animato colloquio Orlando si è sentito pronto a sacrificare qualcun altro al posto suo. Franceschini invece ha scelto una modalità di colloquio molto diversa.
Non ha inveito e non ha minacciato. Non sarebbe nel suo stile. Semplicemente, si è piazzato nell'ufficio di Matteo Renzi e ha deciso di non mollare per ottenere quello che a suo avviso gli spetta. Il segretario del Pd, comunque, non ha modificato la linea: «Facciamo largo al nuovo», ha continuato a essere il suo ritornello.
D'altra parte, da giorni che Matteo Renzi si è messo in testa di fare il «nuovo Pd». Perché si è convinto che «questa sia la strada, altrimenti si rischia di non andare da nessuna parte». Ed è da altrettanti giorni che invece il segretario deve dare i resti agli alleati e al Partito democratico. Due notti fa, quella tra il 24 e il 25, alle quattro del mattino, Renzi ha cacciato tutti via dalla sua stanza, piena fino all' inverosimile. Voleva restare solo. Erano arrivati i campani con le pizzette e le bruschette. Erano in molti a blandirlo e compiacerlo, e lui invece era in tutt' altro stato d' animo. Lo stesso di tutti questi giorni difficili. In cui l' ottimismo si alterna a momenti di scoramento.
«I problemi sono fisiologiche conseguenze delle liste», si dice per tirarsi su nei momenti di sconforto quando anche nell' ultima notte trascorsa in bianco non riesce ancora ad avere un quadro chiaro della situazione. «Stiamo per costruire il nuovo Pd», si ripete speranzoso in ogni momento. Convinto che tanto la formula vincente è quella da lui individuata: «Abbiamo messo in campo il governo, abbiamo messo in campo le eccellenze. La campagna inizia adesso e ci saranno delle sorprese per tutti, ma veramente tutti».