GLI STATI UNITI HANNO PERSO LA PIÙ LUNGA GUERRA MAI COMBATTUTA, QUELLA IN AFGHANISTAN - 17 ANNI DI CONFLITTO E CENTINAIA DI MIGLIAIA DI MORTI PER RICONSEGNARE IL PAESE AI TALEBANI, DOPO L’INVASIONE DEL 2001 - IL PAESE PUO' DIVENTARE, ANCORA UNA VOLTA, UNA PIATTAFORMA USATA DA GRUPPI DI TERRORISTI...
-1. BATTAGLIE, AIUTI, VITTIME «LASCIARE È UNA DISFATTA»
Lorenzo Cremonesi per “il Corriere della Sera”
«Tra alleati come minimo ci si consulta prima di prendere decisioni tanto importanti come quello del ritiro totale o comunque cospicuo dall' Afghanistan. E Trump non lo ha fatto!». C'è amarezza e risentimento negli ambienti militari italiani. Lo si avverte subito parlando con i comandi a Kabul ed Herat, sino al ministero della Difesa a Roma. Anche se nessun militare può esprimerlo ufficialmente.
Chi parla invece apertamente è il 65enne generale in pensione dell' Esercito Giorgio Battisti, un veterano delle missioni all'estero. Diresse il primo nucleo arrivato a Kabul già il 31 dicembre 2001 (poche settimane dopo la caduta del regime talebano) con il compito di garantire la riapertura dell'ambasciata e poi fu ripetutamente presente nel Paese con mansioni di comando ai vertici Nato-Isaf sino al 2015.
«Trump ha commesso un grave errore. Il suo annuncio avrebbe dovuto essere concordato con tutti i contingenti. Rischiamo altrimenti di trasformare un ritiro, che era nella logica dei fatti inevitabile dopo oltre 17 anni di presenza in Afghanistan, in una sorta di rotta disordinata dove ogni Paese agisce da solo. Speriamo almeno che gli accordi con i talebani siano seri», commenta Battisti.
Il precedente che gli viene in mente è il ritiro sovietico, che alla fine degli anni Ottanta aprì la strada alle guerre fratricide tra milizie mujaheddin e quindi ad Al Qaeda. «Occorre assolutamente che adesso tra alleati ci si consulti. Ovvio che senza americani non si va da nessuna parte. Sono loro che garantiscono la logistica, la copertura aerea e le truppe speciali», aggiunge.
A questo punto per i militari italiani diventa fondamentale che questo lungo impegno in un teatro tanto complesso si concluda in modo sensato. «L'Italia è stato un membro fedele della coalizione che dal 2002 al 2015 come Nato-Isaf aveva anche compiti di combattimento attivo e poi negli ultimi tre anni si è incaricata di addestrare le forze di sicurezza locali.
Su 3.540 soldati alleati che hanno perso la vita in azione, la maggioranza americani, 53 sono italiani. Oggi impieghiamo circa 800 uomini tra Herat e Kabul, erano 900 tre mesi fa e saranno ridotti presto a meno di 700. Dal 2001 il nostro impegno finanziario è stato di 6 miliardi e 594 milioni di Euro», ricordano al ministero della Difesa.
La storia della missione fa parte integrante dell'Afghanistan contemporaneo. Inizialmente arrivarono un migliaio di uomini a Kabul. Con loro gruppi di truppe speciali (missione Nibbio), in rotazione con Nassiriya in Iraq, si affiancarono alle teste di cuoio americane nel dare la caccia ai gruppi qaedisti scappati nelle zone montuose al confine col Pakistan. Dopo il 2005 l'impegno italiano si fece più cospicuo: quasi 5.000 soldati.
Si decise allora di ampliare la missione Isaf per garantire la stabilità del Paese intero: si aprirono presidi in tutte le province. All'Italia toccò la regione occidentale di Herat a maggioranza hazara (sciita, diversa dai pashtun sunniti concentrati nel sudest), tradizionalmente ricca di commerci con l'Iran. Ma dal 2006-7 tornò a farsi sentire la presenza talebana.
Anche gli italiani furono vittime di attentati. Tra i più gravi la Toyota kamikaze esplosa tra due corazzati Lince della brigata Folgore presso l'aeroporto di Kabul il 17 settembre 2009. Morirono sei soldati, quattro rimasero feriti. Nel libro d'oro al campo di Herat è ricordato con il massimo dell'onore il sacrificio del capitano 31enne dei Bersaglieri Giuseppe La Rosa, che l'8 giugno 2013 nella provincia di Farah si gettò sulla bomba a mano lanciata nel loro automezzo. Il suo corpo fece scudo ai compagni, che si salvarono.
Oggi la missione è limitata all'addestramento delle forze di sicurezza afghane. Tra i corsi italiani più seguiti: sminamento, pronto soccorso, pianificazione delle operazioni, reclutamento del personale. Allo scorso agosto circa 2.800 ufficiali tra militari e poliziotti avevano seguito i corsi, istruendo a loro volta circa 9.500 uomini.
2 - L'ACCORDO CHE INCLUDE I TALEBANI NEL GOVERNO
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera”
C'è una bozza d' accordo tra Stati Uniti e talebani. Lo ha annunciato l' inviato americano per l' Afghanistan, Zalmay Khalilzad in un' intervista al New York Times rilasciata a Kabul. Ecco il passaggio chiave: «I talebani si sono impegnati, con nostra grande soddisfazione, a fare il necessario per evitare che l'Afghanistan diventi ancora una piattaforma usata da gruppi di terroristi o da singoli individui».
Khalilzad, 67 anni, è nato in Afghanistan: si trasferì negli Stati Uniti ancora da studente. È stato ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, in Afghanistan e in Iraq. Il 5 settembre 2018, il Segretario di Stato Mike Pompeo gli ha affidato il compito di trovare una via d' uscita negoziale a una guerra che dura ormai da 17 anni. E Khalilzad ha subito avviato una serie di colloqui con dirigenti talebani a Doha, nel Qatar.
Donald Trump preme per smobilitare la metà circa dei 14 mila soldati americani, concentrati nelle basi di Kabul e della vicina Bagram, oltre che nei robusti presidi di Mazar-i-Sharif, a nord; Herat a ovest; Kandahar a sud; Laghman a est. Non si conoscono ancora ufficialmente i dettagli dello schema. Ma quel poco che circola a livello informale ha già irritato il governo di Kabul guidato da Ashraf Ghani. L' ipotesi è formare un esecutivo di transizione che includa anche rappresentanti dei talebani. L' autorità provvisoria dovrebbe poi cambiare la Costituzione e indire elezioni generali, con il coinvolgimento delle formazioni ribelli.
«Non accetteremo un governo di transizione né oggi, né domani, né tra cento anni» ha detto Ghani in tv. Il percorso politico è impervio. Ma non si vedono molte alternative all' inclusione dei talebani nelle istituzioni. A meno che gli americani e il governo di Kabul accettino di consegnare intere regioni ai nemici. Il 14,5% del territorio è sotto il controllo dei ribelli, un altro 29,2% è conteso con le armi. A Washington le reazioni sono contrastanti. Non tutti sono convinti che i talebani, un tempo sponsor di Al Qaeda, siano disposti a recidere ogni collegamento con il terrorismo jihadista internazionale.