TRIBUTI DELLA PLEBE - SAGGESE, IL MANAGER CHE RISCUOTEVA I SOLDI DEI POVERACCI E INVECE DI CONSEGNARLI AI COMUNI SE LI INTASCAVA, SI ERA ASSEGNATO UNO STIPENDIO DA 125MILA € AL MESE - YACHT, AUTO, MEGA-PARTY, PRELIEVI DA 10MILA E AL GIORNO. MENTRE GRAN PARTE DEI SUOI MILLE IMPIEGATI VENIVA LICENZIATA - LA SORELLA, CHE GESTIVA LE SUE SOCIETÀ FITTIZIE: “COLPA DELLA CRISI FINANZIARIA GLOBALE”…


Andrea Sceresini per "la Stampa"

SAGGESE

«Un meccanismo infernale». Con questa formula il gip del tribunale di Chiavari, Fabrizio Garofalo, descrive l'oscura operazione messa in atto da Giuseppe Saggese, il titolare di Tributi Italia, che tra il 2006 e il 2009 avrebbe riscosso e incassato, senza mai restituirli, oltre cento milioni di euro in tributi in una miriade di piccoli e grandi comuni in ogni angolo dello stivale. Una strategia portata a termine in «evidente disprezzo per la legge, per l'autorità e per i sacrifici di migliaia di persone che avevano pagato i tributi».

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Scrive il gip nell'ordinanza: «La pervicacia nell'appropriazione illecita di immense somme di denaro accompagnata da un contegno volto a nascondersi dietro organi che amministravano la società solo formalmente, sono indici di una capacità criminale di eccezionale rilevanza, di un'indole volta ossessivamente a conseguire illeciti profitti senza sopportarne la responsabilità». Profitti ancor più odiosi - sottolinea il giudice - dal momento che le cifre sottratte «sono state consegnate dai contribuenti con il grosso sacrificio economico connotato dall'attuale grave momento di crisi».

Lo scandalo è scoppiato all'improvviso, gettando nello scompiglio la piccola cittadina ligure dove Saggese - 52 anni, figlio dell'ex pretore di Taranto sbarcò da bambino dopo aver lasciato la Puglia. «Perché ci hanno messo tutto questo tempo a smascherarlo?», ha chiesto un suo ex dipendente, parlando con i cronisti. E la domanda, certo, meriterebbe una risposta. Mentre - attraverso un complesso sistema di società intestate a parenti e amici - il titolare di Tributi Italia dirottava nelle proprie tasche decine di milioni di euro, gran parte dei suoi mille impiegati venivano licenziati o messi in cassa integrazione. Nel frattempo, Saggese conduceva una vita da pascià, scialacquando denaro ai quattro venti.

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«C'è stato - ha spiegato un teste - un enorme spreco di denaro pubblico, destinato a coprire tra l'altro il pagamento di autovetture di lusso, yacht e telefoni cellulari». Ma c'è dell'altro. Secondo quanto accertato dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Genova, l'imprenditore si sarebbe particolarmente dato da fare, nel corso degli anni, per organizzare mega-party da centinaia di invitati e concerti con cantanti semi sconosciuti ma pagati a peso d'oro. Non contento, si sarebbe concesso un super stipendio da 125mila euro al mese.

Quando si recava al bancomat era sua abitudine prelevare quotidianamente cifre in contanti che sfioravano i 10mila euro. Insomma: non si faceva mancare nulla. Eppure, nonostante l'immenso tornado che lo ha travolto, Giuseppe Saggese sembra pronto a ribattere alle accuse, giustificando in qualche modo le sue azioni. Lo farà oggi stesso, quando verrà interrogato in carcere dagli inquirenti.

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«In questa fase, non posso rilasciare dichiarazioni - spiega il legale dell'imprenditore, l'avvocato Lorenzo Ionata -. Posso dire però che il mio assistito è pronto a rispondere alle domande che gli saranno rivolte. Risponderà integralmente, chiarendo l'esatta dinamica dei fatti». Chi ha già parlato, invece, è la sorella di Saggese, Patrizia, che è indagata assieme al fratello (in compagnia di altre otto persone che amministravano società collegate con Tributi Italia) e si trova con l'obbligo di dimora nella sua casa di Rapallo.

Il fattaccio - assicura lei - sarebbe da imputare non già alle ipotizzate manovre truffaldine, bensì «alla crisi finanziaria mondiale, alla soppressione dell'Ici e all'assorbimento di società che avevano maturato debiti per milioni di euro che non hanno consentito di pagare ai Comuni il minimo garantito». Tutta colpa di «una sorta di forza maggiore tale da discriminare tra l'altro l'ipotesi di peculato contestate agli indagati».