CLERICI VAGANTES! "LA VERITÀ È CHE DOPO AVER LETTO IL SUO PEZZO TI SENTIVI MEGLIO" – GRAMELLINI IN LODE DI GIANNI CLERICI: "SOSTENEVA CHE SOLO DUE ACCIDENTI GLI AVEVANO IMPEDITO DI DIVENTARE SCOTT FITZGERALD: L'USO DELLA LINGUA ITALIANA, IGNOTA OLTRE CHIASSO, E L'IDENTIFICAZIONE CON IL TENNIS. POTEVA ANCHE DIMENTICARSI DI SCRIVERE CHI AVESSE VINTO LA PARTITA" – “UN ARTICOLO DEVE ESSERE UN PO' UN TEATRINO”, TI SPIEGAVA, LUI CHE INSIEME A RINO TOMMASI AVEVA CREATO LA COPPIA TELEVISIVA PIÙ INIMITABILE DELLO SPORT, DIALOGHI E TEMPI COMICI DEGNI DI NEIL COWARD E BILLY WILDER…" - VIDEO

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Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”

 

gianni clerici gianni clerici

Se oggi un adolescente mi chiedesse chi sia stato Gianni Clerici, gli direi: che cosa ti sei perso. Lui era la prova che il talento è come l'amore, un dono che può annidarsi in luoghi improbabili, per esempio nell'individuo più sbadato dell'universo. Clerici ha passato la vita a perdere tutto ciò che umanamente si può perdere - chiavi, biglietti, passaporti, biglietti dentro i passaporti - ma non ha mai perso la faccia e tantomeno sé stesso.

 

Ciascuno di noi ha un talento, purtroppo pochi lo trovano e quasi nessuno, dopo averlo scoperto, lo accetta. Il talento di Clerici non era la tv, dove pure funzionava benissimo, ma la scrittura laterale, quella capacità innata di guardare un fatto da una prospettiva eccentrica per coglierne l'essenziale e tradurlo in una prosa limpida e magica.

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Lo scriba, come amava definirsi (non gli facevano difetto né l'autoironia né l'autostima), sosteneva che solo due accidenti gli avevano impedito di diventare Scott Fitzgerald: l'uso della lingua italiana, ignota oltre Chiasso, e l'identificazione con il tennis, di cui era il massimo cantore al mondo. Per molti intellettuali seduti, il giornalismo letterario sportivo è sempre stato un genere minore, anziché la prosecuzione di Omero. Clerici poteva anche dimenticarsi di scrivere chi avesse vinto la partita, ma la verità è che dopo aver letto il suo pezzo ti sentivi meglio.

 

P.S. Ciao Gianni, grazie di tutto. Mi chiamavi «Junior» e tale sarò sempre, sulle spalle di un gigante come te.

 

 

 

 

NOI CHE VOLEVAMO ESSERE GIANNI CLERICI

Stefano Semeraro per “la Stampa”

 

Da giovani volevamo essere Gianni Clerici.

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Possederne il tocco, la leggerezza mista alla profondità che hanno solo i fuoriclasse. Volevamo capire il segreto del ritmo, della luce che usciva dai suoi pezzi, tanto simile a quella irrequieta e variabile di questi giorni sopra Parigi, sopra il nuovo Roland Garros, sciccosissimo, moderno, una chicca da archistar - che poi chissà se gli sarebbe piaciuto.

 

Per lasciarci orfani, noi tutti innamorati fradici di tennis, Gianni ha aspettato che Nadal disegnasse un altro pezzo di storia nello spazio che era stato dei quattro Moschettieri francesi, Lacoste & Co, e soprattutto della Divina Lenglen, la sua Lenglen, a cui aveva dedicato anni di vita e di ricerche condensati in una magnifica biografia. Poi se ne è andato a 91 anni, con un gesto silenzioso, bianco, scivolando con la solita classe nella storia che lui stesso ha contribuito a scrivere.

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È stato un ottimo tennista, Gianni, compagno di doppio di Pietrangeli, Gardini e Sirola, sfiorando la Davis, negli anni in cui a Wimbledon si andava in Topolino, sperando di essere ammessi al Tempio. Alla conoscenza pratica del gioco aveva aggiunto quella storica e tecnica, compulsando il suo amato Scaino da Salò, il primo teorico del "Giuoco"; o passando giornate nella biblioteca del British Museum per comporre, giovanissimo, 500 Anni di tennis, Bibbia ineludibile per chiunque ami il tennis che gli è valsa un posto, unico italiano insieme a Nicola Pietrangeli, nella Hall of Fame, l'arca della gloria del tennis a Newport.

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Da giornalista aveva debuttato diciottenne su Il Tennis Italiano, storica rivista di settore. Gianni Brera, direttore della Gazzetta dello Sport, ne aveva intuito subito il talento, facendolo scrivere anche di sci, di calcio, di altri sport.

 

Era poi passato all'indimenticabile redazione del Giorno di Italo Pietra - Brera, Clerici, Fossati, Signori, solo purosangue a cui da ragazzi ci si abbeverava - prima di approdare a Repubblica. «Res Publica Clerici vagantes» scriveva sul cartoncino segnaposto in sala stampa, e quello si sentiva, giocando con il proprio cognome.

 

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Non un chierico traditore, alla Julien Benda, ma un amanuense raffinato, devoto e insieme disincantato, con una dose di Nabokov, una di Arbasino, suo ex compagno di classe, e molte di Evelyn Waugh - il suo vero doppio - capace di scovare e tramandare storie, di riconoscere le reincarnazioni del Budda del tennis, da Hoad e Rosewall a Laver e Borg, dalla Graf a Sampras, a Federer, a Nadal.

 

Non solo giornalista, però, ma un «buono scrittore», come si definiva senza falsa modestia; autore di pièce teatrali, di romanzi fortunati - la trilogia dei Gesti Bianchi, Cuor di Gorilla, Quello del Tennis, Una notte con la Gioconda - di poesie, di racconti. «Un articolo deve essere un po' un teatrino», ti spiegava, lui che insieme a Rino Tommasi aveva creato la coppia televisiva più irresistibile e inimitabile dello sport, dialoghi e tempi comici degni di Neil Coward e Billy Wilder, raggiungendo anche chi di tennis non masticava troppo.

 

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Dottor Divago, come lo si chiamava per le continue distrazioni, i pezzi smarriti con sconforto inconsolabile nella memoria traditrice del computer; comunque maestro di competenza e stile. «Gianni magari si dimentica di dirti chi ha vinto», lo canzonava Tommasi. «Ma sa sempre spiegarti perché». E Gianni, ribadendo tutta la sua ironica ammirazione di diversissimo gemello: «Rino a volte si assopisce in telecronaca, poi si sveglia improvvisamente annunciando il punteggio: ed è quello giusto».

 

Per carpirgli i segreti del mestiere, oltre a quelli che dispensava con generosità a chi sentiva più affine, provavi a seguirlo nelle sue peregrinazioni fra i court, a Wimbledon come a Parigi, provare a ribattere qualche suo slice di servizio sull'erba spelacchiata del Kooyong - quando alle redazioni si poteva ancora spedire un fax con il pezzo di giornata e Internet ancora non esisteva - passargli accanto una serata sul Bund a Shanghai, a cena da Gallagher a New York, alla National Gallery a Londra, fra mostre e sedute d'asta (degli amatissimi futuristi o di un seicentesco Desubleo); o ancora appostarti nell'ascensore di Melbourne in cui, miracolosamente, ogni giorno incontrava qualche celebrità destinata a illuminare uno dei suoi pezzi. Che magari snobbavano la (cosiddetta) notizia di giornata, ma ti aprivano un mondo nel giro elegantissimo di una frase.

 

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Perché alla fine è vero - Josè Mourinho perdonerà la parafrasi - chi sa solo di tennis non sa nulla di tennis. E se Gianni è riuscito a raccontarla così bene, questa disciplina mistica e freudiana che si pratica con la racchetta e lottando contro se stessi, con infinita grazia, passione da archeologo e obiettività da entomologo, è perché ha saputo anche vivere: non al 5 per cento, ma al meglio dei cinque set. Dialogando con i campioni dello sport e con i grandi dell'arte, come i suoi mentori Mario Soldati e Giorgio Bassani, Luchino Visconti o Karen Blixen. Un talento di cui gli siamo grati, e riconoscenti. Nella quasi speranza di essere riusciti a imparare qualcosa, e nella certezza di non avergli mai fatto, se non altro, il torto di volerlo imitare. Perché di Clerici, sia chiaro, non ce ne saranno altri.

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