“MIO PADRE NON VOLEVA AUTORIZZARMI A CORRERE. DISSE: NON FIRMO LA MORTE DI MIO FIGLIO. AVEVA RAGIONE DI TEMERE, ALLORA I PILOTI MORIVANO" – GIACOMO AGOSTINI, LEGGENDA DEL MOTOCICLISMO, SI RACCONTA NEL FILM “AGO”: “AL TEMPO DEL TOURIST TROPHY DICEVANO CHE CORREVO PIU’ FORTE PER VEDERE UNA DONNA. ERA UNA SIGNORA, SCRISSERO CHE AL SECONDO GIRO LA MIA MEDIA SALIVA PERCHÉ AVEVO FRETTA DI VEDERE COSA CI FOSSE SOTTO QUELLA SOTTANA” - L'INCONTRO CON I MINATORI ITALIANI IN BELGIO E VALENTINO ROSSI: “QUALCOSA IN COMUNE LO ABBIAMO. ENTRAMBI NON CI SIAMO ACCONTENTATI DI…” – VIDEO
-Giorgio Terruzzi per corriere.it - Estratti
Il documentario si intitola «Ago» e sarà presentato alla Festa del Cinema di Roma il 23 ottobre. Racconta la favola intensa e vincente di Giacomo Agostini, narratore lucido, romantico e ironico, a anni 82, della propria leggenda: «Il montaggio finale non l’ho ancora visto. Ma sono emozionato e ansioso all’idea di ritrovare sullo schermo la mia storia, mio figlio Giacomino che interpreta me stesso da giovane, ascoltare i commenti di mia moglie Maria. Sarà una bella sorpresa».
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Suo padre non voleva autorizzarla a correre. Disse: non firmo la morte di mio figlio. Invece, sopravvissuto.
«Mi regalò una Giulietta Sprint pur di distrarmi. Era un dono persino esagerato perché in famiglia stavamo bene ma, insomma, andare in giro con quella macchina rossa, sportiva, a 18 anni, mi sembrava uno sproposito. Aveva paura e aveva ragione di temere per me. Allora i piloti morivano in continuazione. Stavo attento, ero meticoloso, ma la bravura, la cura, non c’entrano nulla con il destino».
Primo titolo mondiale nel 1966. Aveva 24 anni ed era già pronto per fare la rivoluzione. Forma fisica, allenamento, rigore. Nulla in comune con i suoi colleghi duri e impuri.
«Intanto ricordo di aver pianto per due giorni quando vinsi il mio primo Mondiale. Non mi ero reso conto di cosa fosse accaduto sino al lunedì mattina. Lacrime, sì. Con dentro felicità e una emozione fortissima. Era un traguardo tagliato ma anche il frutto di un atteggiamento preciso.
Un’azienda mi consegnava una moto, spendeva dei soldi per farmi correre. Beh, dovevo ricambiare, assumere una responsabilità adeguata, comportarmi da vero professionista. Non era più un gioco, era lavoro. Dunque, allenamento, attenzione, disciplina, anche alimentare. Andare in moto significa portare la moto, letteralmente, a differenza di quanto accade con le auto che portano chi guida. Il corpo, quando stai in sella, è completamente impegnato».
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Dieci successi al Tourist Trophy. Una corsa bestiale con una presenza quasi celestiale. Chi era la dama del TT?
«Era una signora, abitava in un piccolo villaggio. Correndo, sfioravamo la porta di casa sua. Così lei, alle 4.45 del mattino, quando cominciavano i primi passaggi, usciva con addosso un vestito bianco, mi salutava con un inchino, alzando la gonna. Qualche giornalista seppe della cosa e scrisse che al secondo giro la mia media saliva perché avevo fretta di vedere cosa ci fosse sotto quella sottana».
Donne. Ovunque attorno a lei, per anni. Gossip, fotoromanzi, flirt. Sua moglie Maria sembra divertita quando si parla del suo passato di latin lover.
«Ma sì, ha capito tutto. Quando correvo non era ancora nata, sa di aver sposato un uomo che aveva avuto una vita intensa prima di conoscerla. Dice: sono contenta che ti sia divertito. Poi aggiunge: però adesso basta».
«Ago» è il primo film su di lei ma i suoi rapporti con il cinema sono datati.
«Ho girato tre film, qualche Carosello, parecchi fotoromanzi. La prima volta fu divertente: dovevo baciare una ragazza molto bella e molto alta e così mi piazzarono una cassetta di frutta sotto i piedi per annullare la differenza di statura. Il regista mi sgridava: dovevo dire: ti amo. Rispondevo: ma non è mica vero, è una bugia. Mi scappava da ridere in continuazione».
Agostini: il più forte di sempre. L’ha sempre pensato o qualche volta ha dubitato di se stesso?
«Ho sempre avuto paura di non esserlo. Anche quando vincevo gare e campionati sapevo che sarebbe bastato poco per cominciare a perdere. Conoscevo il valore dei miei avversari. Per batterli dovevo trovare qualcosa in più, nella guida, nella moto, nella messa a punto».
Auto da corsa per terminare la carriera. Come Valentino...
«Qualcosa in comune lo abbiamo. Una gamma di ingredienti utili a vincere e poi a continuare a vincere. Entrambi non ci siamo accontentati di riuscire una volta e poi basta».
In questo film ci sono avversari, tragedie e trionfi. Cosa manca?
«Nulla, credo. Piuttosto c’è il mio incontro con i minatori italiani in Belgio. Commossi e commoventi dopo la mia vittoria. Andavano sottoterra , risalivano e non li riconoscevi nemmeno, sporchi e stravolti dalla fatica. È un incontro che non dimentico».
E cosa manca a lei oggi, nel terzo tempo di una vita ad altissima intensità?
«Il mio terzo tempo è arrivato presto: una carriera termina quando hai circa 40 anni, non sei vecchio ma devi dire addio al tuo amore. Si tratta di considerare l’enorme fortuna che hai avuto, il fatto di essere riuscito a realizzare un sogno, mentre ad altri non capita nulla del genere. Sarebbe una vergogna lamentarsi ora».
Ha compiuto 82 anni. A sua nipotina cosa racconterà per spiegare chi è il nonno?
«Ha 8 mesi e sono felice di avere davanti un futuro da nonno. Di portarla a fare un giro in moto, raccontando qualcosa su un vecchio campione che le vuole bene».