“IL PRIMO MATCH DI JIU-JITSU FU UN DISASTRO” - MARTINA ZOLA, FIGLIA DELL’EX CALCIATORE GIANFRANCO, CAMPIONESSA NELLA DISCIPLINA DI ARTI MARZIALI, HA APPENA VINTO UN BRONZO AL MONDIALE: “MOLTE DONNE RINUNCIANO PER IL CONTATTO RAVVICINATO CON L’UOMO. A LIVELLO IGIENICO PUO' DARE FASTIDIO - IL CALCIO? DA PICCOLA NON LO CAPIVO, NON MI DIVERTIVO. MIO PADRE? DA LUI HO PRESO LA TENACIA. FIDANZATA? SONO SINGLE MA CONFESSO CHE I TRE COMPAGNI CHE HO AVUTO SONO TUTTI LOTTATORI, ALLA FINE SIAMO UNA…”
-Monica Scozzafava per il Corriere della Sera - Estratti
«La prima volta fu un disastro». Martina Zola, figlia dell’ex calciatore Gianfranco, all’epoca attaccante del Chelsea, aveva 20 anni. Si avvicinava allo Jiu-Jitsu (disciplina delle arti marziali), uno sport che per cultura e tradizione soprattutto è da maschi.
Martina, ce la racconta quella prima volta?
«Il momento più brutto ma anche quello in cui mi convinsi che quello era lo sport che volevo fare. Lottavo con un ragazzo, era sudatissimo, aveva la fronte bagnata, mentre resistevo osservavo le gocce sulla sua fronte, ne cadde una e mi finì nell’occhio: un brivido e un fastidio. Fui più forte, continuai a lottare. Mi dissi: se ho superato questo, vado avanti e un giorno vincerò. Osservare da bambina mio padre, i sacrifici che ha fatto per affermarsi nel calcio, non vederlo quasi mai perché era al campo ad allenarsi, godere dei suoi trionfi mi ha avviato in maniera naturale alla competizione, dentro di me c’è la passione per lo sport, vissuta in maniera seria e sana».
Sacrifici, rinunce e ribellione a qualsiasi forma di pregiudizio («quanti ne ho visti e ancora ne vedo nei confronti delle donne ma non mi hanno fermata»). Martina 10 anni dopo ha vinto il bronzo ai Mondiali di Las Vegas nella categoria 125 libbre (57 chili circa). Forza e valori di famiglia a diecimila chilometri da Oliena, cuore della Barbagia.
Da bambina giocava con le bambole o faceva la lotta con i maschietti?
«Facevo ginnastica artistica ma nella mia testa ho sempre cercato qualcosa di più sfidante, performante. Ero incuriosita dalle arti marziali ma in Sardegna non c’erano palestre dove poter approcciare questo sport. Nella vita poi tutto avviene nel momento giusto e quando ci trasferimmo tutti a Londra con papà al Chelsea, iniziai a pensare che lì c’erano le palestre che mi interessavano. Prima di arrivarci ne è passato di tempo. Dopo il college ho fatto un master in cinematografia, ho partecipato anche alla produzione di qualche documentario, ma dopo un po’ lasciai perdere. Lì c’erano le palestre “giuste” dove trascorrevo anche sei ore al giorno».
La sua famiglia come ha reagito?
«Papà mi ha incoraggiata, (...) Lui per me è stato un esempio, di resistenza, umiltà e successo».
Resta uno sport maschile?
«Assolutamente. Molte donne ci rinunciano per il contatto ravvicinato con l’uomo. Non è tanto una questione di resistenza fisica e mentale, ma proprio di scomodità. A livello igienico a molte dà fastidio. All’inizio perdi sempre, viene meno la fiducia e la consapevolezza».
La medaglia di bronzo è un traguardo?
«No, sinceramente potevo fare meglio e quindi sono contentissima ma volevo di più. C’è bisogno di pazienza e resistenza, è uno sport dove manca anche il controllo. Molti atleti uomini assumono steroidi e non c’è controllo. Li ho visti con i miei occhi. E mi arrabbio perché io e gente come me si allena tutto il giorno per raggiungere gli obiettivi».
Fidanzato geloso?
«Sono single ma confesso che i tre fidanzati che ho avuto sono tutti lottatori, alla fine siamo una comunità».
Al calcio non è stata mai interessata?
«Da piccola non mi piaceva perché non lo capivo, andavamo a vedere le partite di papà ma non conoscevo le regole, vivevo quei momenti in maniera confusa, immersa in un rumore incredibile, senza rendermi conto di nulla. Col tempo poi ho imparato e allora è stato sicuramente più piacevole. I successi di papà mi hanno coinvolta molto».
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