“VEDO EX COLLEGHI CHE SENTENZIANO DA PROFESSORI, MA ME LI RICORDO INCAPACI DI FARE TRE PALLEGGI CON LE MANI…” – ROBERTO BAGGIO RIVELA A ZAZZARONI CHE NON CE L’AVEVA CON ADANI: “PARLAVO IN GENERALE, NON ME NE FOTTE UN CAZZO DI GIUDICARE IL PROSSIMO” - “LA FINALE DI USA ’94? VEDEVO MATERIALIZZARSI IL SOGNO CHE AVEVO RINCORSO DA BAMBINO. POI MI SONO SVEGLIATO. MI È ARRIVATO ADDOSSO UN TRENO A 300 ALL’ORA. MAMMA MIA, CHE TRANVATA” – E POI GUARDIOLA E IL FILM SU NETFLIX VIDEO
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Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport
Sabato 25 maggio 1991. Il giorno dopo la Juve avrebbe giocato a Marassi con il Genoa. A Modena Antonio Caliendo era stato arrestato con l’accusa di reati finanziari. Chiamai prima di cena, chiesi al concierge dell’hotel nel quale la Juve era in ritiro di passarmi Roberto Baggio.
Dopo pochi secondi, ecco Robi. Gli descrissi quello che era accaduto al suo agente. Fu una telefonata breve, rispettai la sua preoccupazione. Cominciò così la nostra amicizia. Ancora oggi ci sentiamo spesso, ma solo per raccontarci i fatti nostri o farci due risate, puro cazzeggio, prevale la leggerezza. A volte ci scambiamo dei video, di solito sono barzellette raccontate da professionisti della risata, personaggi che vengono reclutati dai locali di provincia per rallegrare gruppi di amici. Raramente lo colgo impreparato. Lui: «Questa ha vent’anni, quest’altra la raccontavo all’asilo».
Mercoledi 26 maggio 2021, esattamente trent’anni dopo Netflix trasmetterà “Il Divin Codino”: Robibaggio diventa un film. O forse lo è sempre stato. «Trent’anni fa, madonna» mi dice. «Mi butto sotto il treno. Come passa il tempo, ragazzi».
Ripeto spesso che il calcio che amo è finito il 16 maggio 2004, quando ti sei arreso al dolore.
«Mamma mia, lascia stare. Sono passati troppo velocemente, gli anni. E non mi riferisco a quando giocavo, è volato il dopo. Ci sono già dentro da un pezzo, è una roba allucinante. Sembra che le giornate durino soltanto dodici ore. Brutto segno».
Pensiamo alle cose belle, su, al tuo momento più felice.
«Non saprei». Un lungo respiro, poi: «Forse la semifinale del Mondiale, in America. Il sogno che stava per realizzarsi, il momento che si avvicinava».
Trascinasti l’Italia alla finale di Pasadena.
«Lascia stare quello». Sospira. «Vedevo materializzarsi il sogno che avevo rincorso da bambino. Poi mi sono svegliato. Mi è arrivato addosso un treno a trecento all’ora. Mamma mia, che tranvata».
Dopo ventisette anni se ne parla ancora.
«Madonna santa».
Eppure hai sempre dato la sensazione di vivere tutto con distacco. Ricordo il volo privato da Torino a Lisbona, nel ’93: stavi andando a ritirare il Pallone d’oro, non sembravi emozionato.
«Ma no, ero felicissimo. Spesso quando ti ritrovi in mezzo a queste cose non hai neppure il tempo per fermarti a riflettere, non te le gusti»
Vedendo il film, cosa hai pensato?
«Non era ancora finito quando l’ho visto. Io sono il peggior critico, è una roba troppo
personale, faccio fatica a essere obiettivo. Mi ha emozionato, sì. Ma non faccio testo, è strana ‘sta cosa. Quando vedi qualcosa che ti riguarda così profondamente non è semplice giudicare. Quello che hai vissuto viene interpretato da un altro,
strana sensazione».
Il calcio ti ha dato tutto quello che cercavi?
«Non lo so, non lo so. Se facessi due conti dovrei sentirmi strafelice perché ho giocato tanti anni contro il parere dei medici e contro la logica del tempo. Già questo è tanto. La cosa più bella è aver compiuto il percorso nonostante le mie strade sembrassero segnate. Il sogno della finale col Brasile avrei dovuto accantonarlo e invece ci sono arrivato. Sono soprattutto orgoglioso, perché so di aver dato tutto. E non ho rimpianti, a non avere mai rimpianti mi ha insegnato mio padre».
Oltre agli ostacoli fisici hai dovuto superare quelli di natura umana, tattica (diciamo così) e societaria. Sei stato obbligato a lasciare Firenze, Torino, Milano. E ti è stato negato anche il Mondiale nel tuo Giappone.
«Mi inviti a una riflessione. C’è un aspetto che viene spesso trascurato, e non parlo soltanto dei miei casi. Succede che ti ritrovi in mezzo a mari in burrasca e hai soltanto venti, ventitré, ventisei anni. Pensi di aver capito delle cose e solo in
seguito ti rendi conto che non avevi capito un cazzo».
Spiegati meglio.
«Non è facile gestire certe situazioni quando si è giovani, sono prove complicatissime. Basta una stupidaggine, una parola fuori luogo, un comportamento sbagliato e finisci per essere giudicato. Quel gesto, quella frase ti si incollano addosso e te li porti dietro per tutta la vita.
A volte mi metto nei panni di certi ragazzi obbligati a decidere del loro futuro: rischiano di commettere errori dai quali non si libereranno più. Noi parliamo di episodi di trenta, venti, dieci anni fa. Giudichiamo le reazioni di quel tempo. Situazioni professionali, economiche, rapporti con le persone nelle mani e nella testa di poco più che ventenni».
Potrei dirti che così è la vita.
«Se vuoi te la rispiego».
Mi arrendo, Robi. Ti capita ancora di sognarti calciatore?
«Qualche volta, sì. Io sono un sognatore nato, l’Acquario è il sognatore per eccellenza. Sogno di tornare indietro per riscrivere la storia, poi mi
sveglio tutto sudato».
È dell’Acquario anche Mourinho.
«Non lo conosco personalmente, non saprei cosa dirti, quel poco che ho visto in televisione non mi basta per giudicarlo».
Sei rimasto in contatto con gente del calcio?
«Potrei non sentire un amico per dieci anni, ma se lo stimo e gli voglio bene quando lo rivedo è come se ci fossimo lasciati da poche ore. L’affetto e la stima per alcune persone non muoiono col passare degli anni, sono dei collanti incredibili. Per dirti, quando ho fatto cinquant’anni ho ricevuto i messaggi di Billy (Costacurta, nda), Ciccio Marocchi, Dino Baggio, Massimo Carrera, i primi che mi vengono in mente, i Filippini. Ne dimentico una montagna».
Tu capivi il gioco un istante prima degli altri.
«Forse perché avevo già vissuto sul campo determinate situazioni e riuscivo ad anticiparle».
C’è oggi un giocatore che porta in campo
qualcosa di tuo?
«Non ho mai amato i paragoni, non ci sarà mai un giocatore uguale ad un altro. Tutti pezzi unici, gli uomini e i calciatori».
Oltre alla Nazionale, qual è stata la squadra di Roberto Baggio?
«Ma no, Ivan, quando indossavo una maglia giocavo per la squadra e per i tifosi di quel
momento. Io ho avuto la fortuna di star bene dappertutto, ho sempre avuto un ottimo
rapporto con la gente».
Il Brescia ha ritirato la tua maglia nonostante vi avessi giocato soltanto quattro anni.
«È stata un’avventura meravigliosa. Una sfida anche lì, una salvezza che sembrava
impensabile. Perché il Brescia non era mai stato per due anni di fila in serie A, andare lì con un sacco di ragazzi e fare quello che abbiamo fatto, arrivando settimi, è stato bellissimo».
Della splendida intervista di Emanuela Audisio per il Venerdì è rimasta solo la battuta su Adani. Che spreco...
Mi interrompe. «Ma io non ho fatto una battuta su Adani, parlavo in generale, poi mi sono pentito. Mi spiace, veramente, non me ne fotte un cazzo di giudicare il prossimo, non sto qui a dare i voti alla gente, il tempo sta volando e mi rendo conto che ogni giorno che passa è uno in meno che vivo, non mi va di sprecare energie in inutili cagate. Ma fatti i cazzi tuoi, Baggio!, mi sono detto dopo. Io voglio sbagliare in silenzio,
sarà colpa dell’età, ma l’unica preoccupazione è provare a migliorare me stesso».
Resto convinto che il calcio ti manchi.
«Mi manca il campo, mi piacerebbe giocare sul prato di casa con mio figlio, il problema è che ho paura di tirare una pallonata e di dover poi cercare le rotule nell’erba. Sono rotonde, magari si spostano e fanno 50 metri. Uno può svegliarsi la mattina con la cervicale perché la sera prima ha giocato a tombola?».
Questa me la spieghi, però.
«Arrivaci da solo. Ci sono delle volte in cui mi sveglio dopo aver fatto un lavoro il giorno
prima e chiedo alla Andre se per caso ci è passato sopra un camion. Dolori ovunque, il
calcio non mi ha risparmiato».
La storia del calcio è piena di talenti che si sono buttati via. Cassano, Balotelli, Cerci.
«Ho sempre vissuto tra mille difficoltà e le difficoltà mi hanno insegnato a viaggiare
rasoterra».
Dicevano che, per via dei problemi fisici, ti allenassi poco.
«No, io mi allenavo come i miei compagni. Soltanto a fine carriera, a Brescia, saltavo il
lunedì e il martedì perché mi ritrovavo con le ginocchia gonfie come zampogne. Avevo
imparato a gestirmi per riuscire ad arrivare vivo alla domenica successiva. A inizio
carriera non avevo paura di nulla, se dovevo rompermi mi rompevo. Credo che la capacità di ascoltare il fisico mi abbia consentito di tirare avanti per altri anni. Quando hai male tutti i giorni non ti alleni sempre oppure vai a fare l’arbitro o ti piazzi in panchina e guardi gli altri giocare».
A Guardiola hai trasmesso qualcosa del tuo calcio?
«Ma figurati! Cazzo vuoi insegnare a Pep! È nato con una dose incredibile di passione, era
già allenatore quando giocavamo insieme, intelligentissimo, aveva e ha una marcia in
più».
Il Baggio spirituale quando nasce?
«Sono semplicemente una persona che prova piacere nel condividere le proprie
esperienze con i giovani. Senza arroganza, né presunzione».
Quando hai capito di possedere un talento speciale?
«Non l’ ho mai capito. Avevo un sogno. L’ho realizzato».
L’immagine del tuo profilo whatsapp mi ha
colpito: la tua mano stringe quella di tuo padre che ha l’ago della flebo infilata nel dorso.
«Quando mi chiamarono per dirmi che stava male fu davvero un giorno particolare.
Quella foto riassume il legame che non si spezza. Penso a lui ogni giorno, mio padre
era un uomo duro, di origini umili, come ho raccontato a Repubblica, era prigioniero della sua timidezza e di un’educazione che non ammetteva aperture. Soprattutto quando
lavoro è come se lo sentissi dietro di me. Mi osserva e dice: “Robi, fai le cose fatte bene”».
Robi incornicia il calcio secondo le regole che conosciamo a memoria. Mentre sto
per salutarlo si inseguono i volti e i luoghi della vita privata di ogni eccesso del Divino.
Andreina, Valentina, Mattia, Leonardo, e poi Vittorio, Margherita i loro figli (ai quali han
dato i nomi dei mobili dell’Ikea), Antonio, Gianmichele, la Lina, il Peter, Massimo,
Caldogno, Casoni Borroni, Altavilla, Grado, l’Argentina, la Scozia, la Romania, l’Ungheria.
Robi, oggi sei felice?
«Sono felice perché vivo di cose semplici. Semplici, ma non vuote»