Gianluca Marziani per Dagospia
Nessun turista per caso, scomparsi venditori ambulanti e gladiatori coatti, prostitute ormai senza salario e senza via Salaria, lockdown per guide turistiche e guidatori isterici, niente scippi e niente shopping: per tutti solo cibo, medicine e tabacchi, la nuova trilogia del vivere essenziale, un socialismo delle merci che sostanzia il minimo garantito (ma non per tutti, cara democrazia terrestre) mentre ci priva del godimento formato sudore. Roma è desertificata come mai accaduto finora, neanche in un’alba di ferragosto si era vista una Capitale inorganica e cartolinizzata, urbe zoologica per animali senza gabbia, città di monologhi da marciapiede e autobus da horror notturno. Roma, che di solito ha la personalità del set congenito, quasi fosse “The Roman Truman Show”, diventa oggi luogo postfilmico, oltre l’immaginario da sceneggiatori virus oriented, città della marmotta in cui ogni mattina ci alziamo per replicare azioni da salotto e supermercato.
L’era del contagio globale offre panorami mitici ma senza effetti speciali, al punto da rendere plausibile il realismo apocalittico di Cormac McCarthy. La primavera 2020 ci regala una Roma bellissima nel suo paradosso drammatico, un rehab metropolitano che ha messo in lavatrice asfalto, marciapiedi, sampietrini e verde pubblico. Solo oggi, con una città asettica che neanche Antonioni avrebbe fatto tanto, possiamo tracciare il circuito gratuito della scultura urbana.
Quando sono sceso sulla Terra destinazione Roma, ho subito guardato le opere pubbliche con occhio protettivo: mi sembravano tanti giganti buoni, in attesa obbediente nel loro spazio assegnato; una piccola metafora dell’educazione civica che oggi tocca tutti noi, per farci rispettare lo spazio come bene condiviso, distanziato e igienizzato.
Partiamo dal piazzale davanti a Stazione Termini, dal controverso tributo del 2012 di Oliviero Rainaldi a Giovanni Paolo II. “Conversazioni” è un bronzo di sette metri ricoperto da una patina aliena, un veleggiante colosso con un mantello che sembra una tenda indiana. Mentre respira verso le Terme di Diocleziano, ricorda un rifugio cavernoso tra Batman e Louise Bourgeois, metafora accogliente di una città caotica dal grande cuore collettivo.
A poche centinaia di metri, a Largo S. Susanna, si stagliano i quattro marmi bianchi di Pietro Consagra. “Giano” è un totem del 1997 dalle geometrie organiche, cinque metri d’altezza, a metà tra un carapace e un deserto scarnificato; semaforo neolitico dello sguardo che ci porta nel candore di una materia seduttiva, bifronte quindi aperta nei contenuti, metaforica come riusciva alla grande astrazione informale.
Si scende verso via del Corso, fermata Largo Goldoni, davanti allo store di casa Fendi. Qui la natura innaturale ha fatto il suo decorso con Giuseppe Penone, raffinato artista di fama mondiale, maestro di alberi scultorei che tanto piacciono alle borghesie culturali. “Foglie di pietra” è un doppio tronco scarnificato che sostiene un masso marmoreo, una crescita d’artificio sul marciapiede che fronteggia il negozio. Fusione in bronzo d’equilibri sottili e veggenze climatiche, si esalta nella sua collocazione detonante, nella timida solitudine da anima persa, perfetta metafora del minimo necessario per restare diritti mentre portiamo in spalla il peso dell’esperienza.
Navigo via computer e scendo verso il quartiere Flaminio, luogo di echi metafisici, ex terreno di battuage notturno nei dedali del Villaggio Olimpico, portato a nuova vita diurna con l’Auditorium di Renzo Piano e il Maxxi di Zaha Hadid. Davanti al CONI di Viale Tiziano si staglia lo scatto inaspettato, l’oggetto anomalo e straniante, la scultura ad effetto meteorite caduto. L’autore di “Goal” è Mario Ceroli, uomo della Pop Art In legno, qui artefice di un colosso da 35 tonnellate per oltre 16 metri d’altezza. Un incastro di poliedri concentrici, omaggio a Leonardo e alle vie scientifiche della società, opera di rara potenza nello spazio pubblico romano. Realizzata per i mondiali di Italia 90, oggetto di recenti vandalismi, la scultura in legno di pino russo si dimostra empatica, aperta e universale. Contiene la sfera planetaria e il pallone da calcio, macro e micro dentro la sua vertigine di scienza e flash creativo.
A pochi passi da viale Tiziano ci si avvia verso il Maxxi di via Guido Reni. La scultura di cui parlarvi è un neon firmato Maurizio Nannucci, una scritta da muro esterno che amplifica le tensioni scultoree del museo stesso, rendendo la parete un foglio elettrico del quartiere. La frase dice simbolicamente “More than meets the eye”, affinché si guardi oltre il visibile, in modo meno scontato, evitando le trappole del pensiero unico. Per residenti e spettatori assidui è un riferimento luminoso che obbliga alla traduzione, stimolando sinapsi che solo l’arte può accendere. Perché tradurre, non dimentichiamolo, significa dialogo e conoscenza, due armi che aiutano ad uscire da patologie spesso non tracciabili.
Cambio di sponda, mi muovo verso il Foro Italico e raggiungo Arnaldo Pomodoro al Ministero degli Esteri, lì dove domina la più famosa scultura novecentesca nel territorio romano. Per chiunque abbia frequentato la Tribuna Tevere dello Stadio Olimpico, parliamo della fatidica “palla” dove darsi appuntamenti prima o dopo il match. “Sfera Grande” del 1967 è un magnifico esemplare dei mondi spaccati di Pomodoro, ben integrato ai contenuti di un ministero che cura le diplomazie col mondo. Sospesa su un letto d’acqua, la sfera in bronzo non perde drammaturgia e conferma l’ingegno fantasy dello scultore, la sua natura visionaria e surreale. Ma anche la veggenza sul futuro di un pianeta ferito, da suturare con estrema cura collettiva.
Mi muovo sul Lungotevere ed eccomi a Piazza Monte Grappa, davanti al palazzo di Finmeccanica, qui dove spunta la fontana della Dea Roma del polacco Igor Mitoraj. Realizzata nel 2003, si staglia come volto ieratico della memoria che ci osserva, una testona di travertino dalla manutenzione controversa e dai risultati altalenanti. Mi sorge un dubbio: ma fosse più bella quando sembra il rudere di un paradiso perduto, avvolta dai segni del tempo, eco silente di una classicità ormai impossibile?
Adesso risalgo verso il Museo Etrusco, lo supero e giungo davanti alla collezione in esterni de La Galleria Nazionale. Scelgo tre opere che considero perfette. La prima è “La Grande Spirale” di Ettore Colla, un antitotem giocoso che nacque a Spoleto per la mostra del 1962 “Sculture nella città”. Semplice ma spiazzante, terrena e al contempo spirituale, diviene contraltare geometrico all’anello di dieci metri firmato Mauro Staccioli. “Roma 2010” è un invito olistico al salto spaziotemporale, alla soglia verso mondi nuovi, una definizione del tutto tramite l’impatto del quasi nulla. La considero la più bella tra le sculture che cercano l’essenziale nello spazio finito, metafora in rarefazione che incornicia porzioni mentre si irradia verso gli orizzonti dello sguardo infinito.
La terza opera è un ruggito del leone o meglio, un verso silente dei leoni di Davide Rivalta sulla scalinata a tastiera della Galleria Nazionale. Mi sono innamorato di loro al primo sguardo, una passione totale per quelle fiere nere dalla materia lavica, segno di potenza che trattiene l’azione, di saggezza universale, di attesa del nuovo giorno. Sono loro, i nuovi leoni di Roma, a rafforzare la vigilanza atavica della lupa capitolina. Incarnano il soccorso che arriva da lontano, la forza saggia dei maestri, segno di una città meticcia dal cuore aperto, dove anche un marziano come me ha trovato la sua piccola integrazione.
Il vostro Marziani da tastiera si ferma qui, cosciente di quante altre opere occupino spazi tra quartieri e rioni. Nel mio resoconto ho scelto le sculture del cuore, quelle che tracciano la mia sottile linea rossa nel deserto odierno. Avremo modo di allargare il racconto, parlando della collezione di Villa Glori, degli interventi in altri parchi pubblici, dei palazzi di Tor Marancia, delle centinaia di muri tra Ostiense, Testaccio, San Lorenzo e non solo, delle sculture di Paolo Buggiani e altri autori antagonisti, del museo abusivo firmato Seth… risentiamoci a breve, le sorprese romane non finiscono mai.
Ripensando a Ceroli, Pomodoro e Staccioli, passo e chiudo con le parole di Federico Barbarosssa: Roma caput mundi regit orbis frena rotundi (Roma capitale del mondo regge le redini dell’orbe rotondo)…